domenica 10 maggio 2020

La cravatta di Berlino






La cravatta di Berlino
Un viaggio di formazione con Piero Trupia

di Luigi Sanlorenzo


“Io non so quanto possa valere un regno,
 ma so di avere ottenuto una felicità
che non merito e che non vorrei cambiare
 con nulla al mondo.”

Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister

             
   Sulla mia copia di Cento talleri di verità   (Mediascape Editore, 2005) Piero Trupia scrisse questa dedica: “A Loris Sanlorenzo, compagno di viaggio alla scoperta di eventi”. Oggi, trovandomi a ricordare il maestro saggio e sapiente che egli fu, mi sento di sostenere che in quella frase risiede la sintesi del senso che dava alla propria vita, al rapporto con le singole persone, con i luoghi e con le emozioni che avevano contribuito a farne un pensatore finissimo, un formatore eccentrico e potente, uno scopritore di talenti e di vocazioni.

   Quella dedica non rimane solo sulle pagine del libro, a futura memoria. Essa è per me epigrafe di un vero viaggio di formazione che, nato da una semplice battuta durante uno dei tanti consigli direttivi dell’Associazione Italiana Formatori a Milano, prese corpo in pochi giorni e ci condusse a Berlino per vivere uno dei viaggi/evento che, come pochi, mi ha segnato.

   Con Piero eravamo amici dal 2000 e ci eravamo riconosciuti in una dimensione di “destini incrociati”. Mi accolse nella sede storica di corso Magenta, poco distante dal Cenacolo Vinciano in Santa Maria delle Grazie, giovane ma agguerrito ed eterodosso neo presidente di AIF Sicilia e fu per me, insieme al compianto Franco Angeli, un nume tutelare, garantendomi sempre il proprio sostegno e frenando con consigli preziosi i miei furori iconoclasti.

   La comune origine palermitana, il sottile ed ironico piacere di poter praticare un codice esclusivo fatto di una prossemica potentemente espressiva e di suoni gutturali e aspri, di espressioni idiomatiche contenenti millenni di storia e secoli di dominazioni provenienti da più parti del mondo e fuse in un’unica cultura avvolta dal mistero e dal profumo di zagara, ci univano; la passione per il viaggio e per l’incontro con pensieri che, nati “alla fine del mondo” emendavano la nostra razionalità occidentale, ripulendoci da ogni cartesiana certezza, erano una trama comune, solida e rassicurante.

   Piero aveva trascorso alcuni in anni in Iran, parlava correntemente un farsi musicale e misterioso ed era laicamente affascinato dal misticismo medio orientale e dalla bellezza dell’arte islamica, resa potente dalla forza del segno grafico che, a suo avviso, apriva la mente più delle arti figurative a cui siamo abituati. Nulla c’era in lui di barocco o ridondante, molto di irriverente, tutto dell’ essenziale e del frugale. E’ qui si rivelava un’ulteriore affinità, derivante dalla formazione scout ricevuta in epoche diverse ma che, ugualmente, ci avvicinava, in una visione della vita animata dalla medesima “spiritualità della strada” e dal culto di un ottimismo fervido e operoso.

   Da queste prime righe, chi non lo ha conosciuto potrebbe immaginarlo come un intellettuale eccentrico o un accademico con la testa tra le nuvole. Piero, invece, era arrivato a Roma con in una tasca la laurea in scienze politiche e nel cuore la passione per la matematica che aveva studiato prima di cambiare facoltà universitaria. Era stato assunto nel cuore del pragmatismo più radicale, la sede nazionale di Confindustria in viale dell’Astronomia, all’ EUR, al tempo di Guido Carli, che non amava e di Vittorio Merloni, che apprezzava e con cui collaborò dopo il pensionamento, studiando il distretto industriale del fabrianese e le problematiche legate alla successione nelle imprese familiari.

   Nel “Grande Ente”, come lo chiamava, prevaleva in quegli anni il pensiero economico e gestionale di taglio fordista più che le stranezze di quello, sospetto, di Adriano Olivetti.

   Dopo gli anni di volontariato trascorsi in Sicilia nella Comunità di Mirto a Trappeto, dove aveva preso il posto che era stato di Danilo Dolci, Piero si ritrovò, come catapultato in un girone dantesco, con il corpo immerso nello Scientific management e la mente affamata di pensieri nuovi, nella costante ricerca di una costruzione più umanistica delle scienze e dei comportamenti manageriali e della dimensione conviviale dell’impresa, ispirata dalla concezione organizzativa presente nella Regola Benedettina. Ovviamente, quella testa saltò presto ma fu proprio tale sorta di esclusione da ruoli cruciali (oggi diremmo soft mobbing) a renderlo libero di ampliare il tempo da dedicare agli studi e alle ricerche più care ed a concepire più tardi quello che non esito a definire il suo capolavoro: Potere di convocazione. Manuale per una comunicazione efficace (Liguori, 2002)

   Ne riporto la recensione di Marco Minghetti: “Potere di convocazione è stato concettualizzato da uno dei padri fondatori dello Humanistic Management, Piero Trupia e che così viene definito nella Nona Variazione Impermanente del Manifesto dello Humanistic Management:
“La convocazione è invito attivo; è suscitamento dell’iniziativa discorsiva dell’altro, a partire dal riconoscimento di principio della sua autorevolezza in quanto altro. E’ lo sviluppo di relazioni dialogiche, che si prendano carico non solo di usare utilmente un rapporto dato, ma di costruirne/ricostruirne le premesse e rispecchia la differenza fondamentale fra il potere di convocazione e le altre forme di leadership in cui il prestigio, la tradizione, l’autorità sono pre-dati: sono già costituiti prima del loro esercizio. Di pre-dato nella convocazione c’è solo la volontà di esercitarla. Il prestigio viene esibito, l’autorità esercitata: la convocazione discorsiva viene costruita nell’interazione e in cooperazione con il convocato”. “Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, ma dalla linea dell’arco che esse formano.”

   Poiché scopo di questo scritto non è la ricapitolazione sistematica del pensiero di Piero né l’analisi critica del corpus delle opere, quanto piuttosto il tentativo di rievocare il suo stile formativo da me percepito e vissuto in quei giorni e che ha segnato i quindici anni successivi in amicizia fraterna e collaborazione intensa e feconda, torno volentieri al viaggio a Berlino, un indimenticabile bildungsreise, che si svolse alla fine di aprile del 2005. Già in viaggio, ironizzammo a lungo su chi saremmo stati: Narciso e Boccadoro, Damiel e Cassiel, Terzo e Campari o, più prosaicamente, Totò e Peppino ? Trovammo una mediazione, ragionevole e letterariamente più coerente, su Naphta e Settembrini, poiché dialettici sarebbe dovuti essere i nostri punti di vista per manifestarsi come utili e generativi.

  Il ricordo della città aveva per lui un sapore agrodolce. Vi si era recato nell’ottobre del 1989 per partecipare ad un corso di tedesco di due settimane promosso dalla Federazione Giovanile di Berlino Est e proposto ad un costo molto popolare. Ricordava la struttura di ex campo di lavoro, la logistica spartana, il clima da istituzione totale e la preoccupazione che qualcuno scoprisse che lavorava in Confindustria. Sarebbe stato imbarazzante, almeno quanto la sua nomina a Klassenführer, in quanto più anziano della classe. < Sai che sono stato Führer ? – mi disse, ragionando sulla potenza delle parole - chi l’avrebbe mai detto ? Una bella carriera per un palermitano nato alla Saponeria ! >

   Raccontava delle brevi gite a Berlino ovest concesse durante il corso e vissute con una forte sensazione di disagio. Completato il corso, era tornato in Italia e pochi giorni dopo un amico lo aveva chiamato: < Abbattiamo il Muro ! Se puoi venire, faremo in tempo a dargli una spallata insieme ! > E Piero non se l’era sentita di restare sulle soglie della Storia. Una foto lo ritrae, avvolto in cappottone, accanirsi su un tratto di muro coperto da graffiti . < Ho ancora nelle orecchie il rombo delle migliaia di martelli – mi disse - il mio ha fatto ben poco, in venti minuti ho tirato fuori tre scaglie di cemento. Pensavo: la cortina era di ferro ma questo muro è d’acciaio. Con i vopos che impassibili si spostavano più in là sul muro, ad ogni settore che crollava. Finchè non ricevettero l’ordine di abbandonare. La Repubblica Democratica di Germania, il mondo diviso in due blocchi, la guerra fredda. Tutto finito>

   Ora tornava a Berlino dopo molti anni, con la compagnia di un amico appartenente ad un’altra generazione e con la curiosità di intravedere se, tra ciò che ancora restava di quelle macerie, potessero distinguersi i segnali “anomali” tanto spesso evocati e ricercati, del mondo nuovo che ne sarebbe dovuto sorgere.

   Alloggiammo in un albergo in centro e lì ebbe luogo il patto: durante la giornata e in sua presenza non avrei potuto fumare l’adorato sigaro toscano. Se il patto fosse stato mantenuto, avrei posseduto definitivamente la cravatta dai toni vivaci che mi regalava <per sostituire - ebbe a dire - le tristi regimental che sei solito indossare>. Ove il patto fosse stato rotto, il regalo sarebbe stato da me restituito, sine ira et studio che, nella traduzione dagli Annali di Tacito, significa “senza animosità né pregiudizio”.

   La cravatta era ispirata alla luce presente negli amatissimi quadri macchiaioli di Francesco Lojacono, esposti alla Galleria della Fondazione Francesco Zito di proprietà del Banco di Sicilia di Palermo e oggi della Fondazione Sicilia, la cui visita era tappa obbligata durante lo svolgimento del modulo di apertura del Master in Direzione del Personale che diressi per dodici anni in una delle più belle strutture alberghiere di Mondello dove Piero, “u professuri” era sempre ospite atteso, gradito e coccolato dal personale e dal titolare, mio consocio rotariano e idolatrato dagli ex allievi che, alla cerimonia di apertura di ogni successiva edizione, preannunciavano ai nuovi studenti l’unicità dell’esperienza che li attendeva.



   Il patto era nella natura di Piero: fissava un obiettivo volto alla salvaguardia del mio (e del suo) benessere, concretizzandone il raggiungimento e il premio in un oggetto di affezione che egli sapeva avrebbe avuto per me grande valore. Non fu facile mantenerlo, mi vennero in aiuto le Nicorette, gommose pastiglie alla nicotina, qualche cerotto con le medesime finalità e l’attesa - una volta lasciatici dopo la cena e le lunghe passeggiate notturne intorno al Checkpoint Charlie - di poter aspirare qualche boccata dell’amato trastullo sul balcone della mia camera.


Berlino, Pergamon, Porta di Histar - Immagine tratta dal sito https://www.tgtourism.tv/



    Le nostre chiacchierate avevano inizialmente come scenario i luoghi più visitati della capitale tedesca, alla ricerca del Genius loci che in ciascuno di essi dimorava: la Porta di Brandeburgo, l’ Unter den Linden, la cupola del Reichstag - “imballato” da Christo nel ’92 - realizzata da Norman Foster nel ‘99, il perimetro del Muro, il Neues Museum con il busto di Nefertiti, il Pergamon affacciato sulla Sprea, dove Piero riviveva gli anni persiani tra le maioliche vetrificate della Porta di Ishtar, recitando brani del matematico e astronomo del X secolo Umar Chayyam, autore del Trattato sulla dimostrazione dei problemi di algebra.

     Piero era claudicante, ma non conobbi mai altri in grado di tenere il passo di un boy scout cinquantenne allenato da lunghe camminate nei boschi e per i sentieri di montagna, sia nella mia Sicilia che durante le annuali vacanze alto atesine.


    Alternavamo gli itinerari tra Mitte e la campagna fiorita che circonda la metropoli: il Giardino botanico di Dahlem alla ricerca di nuovi ed impossibili innesti per la terrazza romana, Pfaueninsel, l’Isola dei Pavoni adagiata nel fiume Havel con il giardino giapponese silenzioso, tra nudi sassi e i ponticelli sospesi che rimandavano a L’Impero  dei Segni di Roland Barthes.

   Piero amava la Bellezza che intendeva come riflesso della perfezione dei numeri e ne chiedeva grande rispetto, asserendo convintamente che “Non è bello ciò che piace, ma è bello ciò che è bello”.

    Un approccio platonico rivisto alla luce del pensiero tomistico e della celebre affermazione dell’Aquinate: “Ad pulcritudinem tria requiruntur integritas, consonantia, claritas” e che James Joyce traduceva letteralmente, facendola pronunciare a Stephen Hero, il precursore letterario di Dedalus, in uno dei più bei romanzi di formazione che siano mai stati scritti dopo il Wilhelm Meister di Goethe: “ I translate it so: three things are needed for beauty wholeness, harmony and radiance. Do these correspond to the phases of apprehension? Are you following?”

   Seguiva l’indimenticabile apologo del canestro e così ci attardavamo, accalorandoci seduti sui gradini che scendevano al laghetto del Castello di Charlottenburg, mentre i cigni incuriositi si avvicinavano, quasi spettatori di tanto intenso dibattito su un tema che ai medesimi sarebbe apparso assurdo, per il solo fatto di essere essi stessi piena ed evidente manifestazione della Bellezza.


    Belli per Piero erano anche i graffiti di una comune di squatters (Hausbesetzer) alloggiata tra le rovine di un ex edificio per uffici di cinque piani trasformato in atelier alternativo ricco di creatività compressa ed esplosiva, tra fuochi all’aperto, giovani donne dalle gonne coloratissime e bambini con il moccio al naso.

   Meno belli gli apparivano, nonostante un passato da militante di sinistra, alcuni luoghi dell’ ex Berlino Est come Strausberger Platz, dominata dai propilei sovietici che segnavano l’inizio di Karl-Marx-Allee, l’immensa strada costruita per le sfilate militari della DDR e su cui prospettavano i tristi edifici del regime, gli unici con i balconi perchè masse entusiaste potessero affacciarsi ed applaudire il sogno tradito del filosofo di Treviri.

    Nonostante gli anni trascorsi dall’unificazione. vi si trovavano ancora negozi dalle vetrine vuote e androni polverosi dove ristagnava un grande sentore di miseria. Fu un lungo pomeriggio triste in cui restammo spesso in silenzio, immaginando come dovessero essere quelle che l’anno successivo Florian Henckel von Donnersmarck avrebbe chiamato Le vite degli altri , vincendo il Premio Oscar quale miglior film straniero. Lukács e Marcuse non giunsero in nostro soccorso, ma ci sovvennero le parole pronunciate da Solženicyn nel 1993 sul destino dell’Europa: “In Europa, l’abisso è profondo. Ha la malattia del vuoto. Tutte le sue élite hanno perso il senso di valori più alti. Il sistema occidentale passa al suo stato finale di spossatezza spirituale: legalismo senz’anima e abolizione della vita interiore”.


   Eravamo a Berlino per cercare profezie sotto le macerie del Muro. Alcune le trovammo già avverate.



    Respirammo ancora nei grandi spazi urbani del passato. In Alexanderplatz alla ricerca dell’ombra di Alfred Döblin, canticchiando Battiato, a Pariser Platz esplorando l’eterno confronto tra Kultur e Zivilisation; in Gendarmenmarkt con la Konzerthaus tanto simile al Teatro Massimo di Palermo, a Potsdamer Platz con il mito fragile e provvisorio del post moderno, in Babelplatz dove il 10 maggio 1933 gli studenti nazisti bruciarono le opere “degenerate” illudendosi di distruggere i fratelli Mann e poi Kafka, Freud, Darwin, Heine, Hesse, Benjamin e mille altri pensatori e poeti. Un rogo a cui si ispirò Umberto Eco, descrivendo l’incendio della Biblioteca ne Il Nome della Rosa e novellando la tragedia dell’integralismo, già manifestatasi per la prima volta nella storia ad Alessandria d’Egitto, come narrato da Plutarco.

    Di grande impatto ed intensa commozione fu la visita al Dorotheenstädtischer Friedhof, passeggiando tra le tombe di Brecht, Ficthe, Hegel, Heinrich Mann, Schinkel e tributando loro, da siciliani osservanti del rito ancestrale della Festa dei morti, un omaggio dialettico alla vita, al pensiero umano, al doppio debito contratto da noi contemporanei con le generazioni precedenti e con quelle future. Foscolo, Pindemonte e L’Antologia di Spoon River ci furono d’aiuto per trovare le parole giuste. Il Requiem di Mozart eseguito dai Berliner Philharmoniker ci restituì più tardi al mondo dei vivi.


    Poi le sorprese, rari ed inestimabili doni di ogni vero vagabondaggio: trovare sulla bancarella dei libri usati, oltre i cancelli della Humboldt-Universität , una copia de La stanza dei lumini rossi dell’amico palermitano e mio coetaneo Domenico Conoscenti, cercato invano in Italia per alcuni anni; riscoprire i prototipi dei mille oggetti del novecento funzionalista al Bauhaus, ripensando a Gropius e riflettendo sulla libertà dell’ educazione; acquistare in un mercatino dell’usato uno zaino Lafuma degli anni trenta, vero e proprio cimelio dell’alpinismo mondiale; cenare in un ristorantino di Kreuzberg e vedere Piero allibire mentre la prosperosa ed attempata Frau proprietaria del locale lo abbracciava sin quasi a soffocarlo, giurando di rammentarne il volto dopo molti anni. Sedutasi con noi, raccontò sino a notte fonda la storia degli amori della propria vita, i ricordi della Riviera Romagnola e quanto diversamente sappiano amare gli italiani. Quando ci offrì la cena, ringraziammo segretamente legioni di bagnini riminesi e le promettemmo, insieme ad un’ottima pubblicità, che un giorno saremmo tornati.


   Una mattina, durante la prima colazione, Piero mi annunziò che avremmo dovuto inserire nell’itinerario anche un mercato dove acquistare due uova. Mi sorpresi, visto che consumavamo i pasti sempre fuori, ma non volli approfondire, pregustando nuovi stupori. Ho sotto gli occhi la foto di quella mattina: Piero tiene in mano una confezione di uova. <Devo lavarmi i capelli> mi disse e spiegò il segreto della sua chioma bianca e luminosa, ancora folta e ribelle grazie a quel metodo < Ma, attento !- disse, puntando l’indice ammonitore che conoscevo bene e che avevo ritratto decine di volte – devi risciacquare con acqua fredda, altrimenti puzzerai di frittata ! In più, calmerai i bollori intellettuali prima che diventino deliri, poiché “come l’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, così l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente”>

     Ed io mi sentii Adso da Melk.

     Chi è il formatore ?

   Era la domanda, sottintesa anche nelle conversazioni più apparentemente amene, che ci interrogava attraverso le opere umane sotto i nostri occhi e la natura che le circondava affermandosi come ragione e causa delle medesime, che si nascondeva nei ragionamenti appassionati ma non per questo meno concreti. Tra le tante possibili definizioni me ne è cara una, originatasi in quei giorni, frutto di animate discussioni e verificata sul campo nei quindici anni successivi attraverso la progettazione e lo svolgimento di eventi formativi in cui, in molte occasioni, fummo l’uno accanto all’altro.


    Ebbene, il formatore evolve in due fasi, come dal bozzolo la farfalla: nella prima è un regista che predispone risorse, eventi, fonti, prove dissimulate e segnali nascosti, razionalità ed emotività, realtà e sogno, dizioni e contraddizioni, linguaggi e silenzio. Li mette a disposizione del protagonista, senza imporre alcun copione ma rispettandone la libertà di sbagliare e il tempo per rendersene conto, aspettandolo, con pazienza (e amore?) pochi o molti passi più in là. E mentre aspetta, sente di aver mutato la propria natura in quella di un alchimista inconsapevole che ha scoperto la Pietra senza averlo desiderato, ma quale ineffabile risultato, insperato e mai garantito, della propria vocazione e dell’incrollabile fede nella natura umana.

   L’ultima sera ci spingemmo sino alle rovine dell’ Anhalter Bahnhof la stazione dimenticata di Berlino, orgoglio della Germania prussiana e distrutta durante i bombardamenti dal 1943 al 1945. Da lì partivano e arrivavano i treni in direzione Roma, Napoli ed Atene tant’è che venne presto soprannominata “La Porta del Sud”. Forse sollecitato dai fantasmi di quell’andirivieni che sembravano aleggiare tra le rovine, Piero disse improvvisamente: < Hai letto Terzani ? – mi chiese - cita spesso un pensiero buddista “il maestro arriva quando l’allievo è pronto” Puoi essere il miglior formatore ma, quando diventi un Maestro? > Io elencai, non senza imbarazzo, i molti che avevo studiato ed amato: Socrate e Gesù, Sant’Agostino e Gautama, Giordano Bruno e Galilei, Francesco Bacone e Isaac Newton, Voltaire e Gramsci, Einstein e John F.Kennedy La lista era infinita e dava le vertigini.

   Poi, coloro che avevo incontrato personalmente, intessendo nel tempo trama e ordito di un’ intensa amicizia: Franco Modigliani, Hans G. Gadamer, Umberto Eco, Giancarlo Lombardi, Emanuele Severino, Mimmo De Masi, Franco Angeli,  Giovanni Sprini, Gabriele Morello e lui stesso, che non nominai per timore di piaggeria.

Piero Trupia, Giovanni Sprini, Gabriele Morello, 2009,  Hotel La Torre, Mondello

< Vedi – mi disse- in una sorta di eterogenesi dei fini, tu li hai riconosciuti come Maestri non per loro intenzione, bravura o carisma, abilità talvolta innate e che, in molti casi, si acquisiscono, ma perché in determinati momenti ed eventi della vita sei stato pronto a percepirli come tali e ti hanno segnato per sempre. In questo ribaltamento della prospettiva se stato tu a costituirli Maestri, eri tu a isolarne il profilo tra la massa dei tanti che avevi conosciuto sui libri o nella vita. Ecco la ragione per cui in molti altri essi suscitavano ammirazione e rispetto ma a te, invece, cambiavano la vita. Erano arrivati puntuali - e ripeté - il maestro arriva quando l’allievo è pronto. >

   Tacqui e scrutai nel buio di quell’ultima sera a Berlino l’ ombra della folla di quanti mi avevano aiutato negli anni a diventare un uomo. Avrei tanto voluto fumare il mio sigaro toscano !

   Piero “agglutinava” tutto in un personalissimo Athanor da cui distillava l’armonia di una relazione “ponte” colorata di mille sfumature, come la cravatta di Berlino che tengo di fronte a me mentre scrivo queste righe. Nessun margine tra un colore e l’altro, nessun confine disciplinare, nessuna ortodossia dogmatica, ma una tras-fusione continua tra saperi ed esperienze, un’esplosione di vitalità fatta di stimoli e di percezioni che restituisse la libertà di percorrere, ciascuno a modo proprio, il viaggio che la vita e la morte mettono davanti, quale completa e definitiva epifania dell’eternità di ogni singola ed irripetibile esistenza umana.

   Costretto, mio malgrado, dalla necessità di terminare questo racconto che, grazie ad un approssimativo diario redatto ogni sera su inseparabili Moleskine, mi ha consentito di rievocare profonde e care emozioni, mi piace pensare che il testamento di Piero Trupia possa essere contenuto nell’ ultimo dei Cento Talleri che ci ha lasciato in eredità: “Cosa ho trovato alla fine del viaggio? Che mi sono guadagnato il legittimo orgoglio, la certezza, forse, d’una predestinazione (è per tutti del resto). Gratis gratia data et gratia in me vacua non fuit. Bonaventura da Bagnoreggio”



giovedì 22 settembre 2016

Articoli pubblicati su Sicilia Informazioni da gennaio a novembre 2016



Novembre
http://www.siciliainformazioni.com/luigi-sanlorenzo/460587/la-lezione-americana-alla-ricerca-del-trump-siciliano

Settembre
http://www.siciliainformazioni.com/luigi-sanlorenzo/422694/422694
http://www.siciliainformazioni.com/luigi-sanlorenzo/421529/421529

Giugno
http://www.siciliainformazioni.com/luigi-sanlorenzo/354552/fumo-di-londra-quel-che-resta-delleuropa

Marzo
http://www.siciliainformazioni.com/luigi-sanlorenzo/268177/umberto-eco-la-sicilia-e-la-vertigine-del-complotto

Febbraio
http://www.siciliainformazioni.com/luigi-sanlorenzo/285335/venticinque-anni-fa-la-rete-utopia-o-profezia

(se il testo non viene evidenziato dal mouse, selezionare il titolo e con il tasto destro cliccare su "vai alla pagina")

sabato 25 giugno 2016

Fumo di Londra. Quel che resta dell’ Europa.





Non è servita a nulla la bandiera a mezz’asta esposta sulla torre del Parlamento britannico in segno di lutto per l’assassinio della deputata laburista  Jo Cox. Eppure, come un tragico monito,  avrebbe dovuto far riflettere  i sudditi del Regno Unito sulla responsabilità della scelta pro o contro l’Europa.

Nel volgere di poche ore le previsioni sono state ribaltate e con esse vanno in fumo sessant’anni di storia che realizzavano, pur con ogni limite umano e politico, la straordinaria visione concepita da Altiero Spinelli nell’esilio di Ventotene, mentre infuriava all’orizzonte il rogo della seconda guerra mondiale.

La Gran Bretagna lascia l’ Europa e non lo fa per elevate ragioni etiche o in vista di alternative migliori. Con uno scarto, non eclatante ma determinante, nella terra di John Locke e di David Hume hanno prevalso l’astio e non la ragione, la paura e non la fiducia,  il passato e non il futuro. Hanno preso il sopravvento impossibili nostalgie di un aureo isolamento coltivate da over sessantacinquenni e dai ceti popolari stretti nella morsa della crisi economica su cui hanno soffiato i venti della xenofobia e del razzismo, assecondati da una leadership miope che tentava di preservare se stessa, blandendo gli elettori con la promessa del referendum contro l’Unione.

Oggi quella mossa azzardata si è rivoltata contro i propri autori che dovranno assumere una responsabilità senza precedenti nella storia della Gran Bretagna poiché l’esito della consultazione che ha contrapposto i leavers ai remainers supera il Canale della Manica e si riverbera su un continente di oltre 500 milioni di persone che non perde solo una delle ventotto nazioni che compongono l’Unione,  ma quella che ne completava il significato e ne definiva l’identità.


Stanotte in Europa il tempo si è fermato e nello spazio di pochi secondi sono passati nella mente di molti di noi migliaia di immagini del passato individuale e collettivo legato indissolubilmente al rapporto con una terra che ha rappresentato per secoli la frontiera di ogni innovazione culturale, economica e sociale e la cui lingua ha preso il posto, dopo due millenni, del latino, contribuendo a globalizzare, nel bene e nel male,  la nostra esistenza.




Una terra che sta accogliendo da vent’anni larga parte della generazione Erasmus, offrendo non solo il lavoro per sopravvivere in condizioni di dignità e di tutela sociale ma soprattutto la possibilità di sviluppare quei talenti che paesi come l’Italia ogni giorno umiliano, spingendoli ad emigrare.

Senza la presenza britannica l’Europa corre il rischio di tornare  ad essere l’eterno campo di battaglia tra la Germania e la Francia, in lotta – impari -  per il predominio culturale ed economico, anche quando diplomatici abbracci sembrano voler mandare messaggi di altro segno. Quella stessa Francia che nel 2005 ha contribuito ad affossare il progetto di una vera Costituzione Europea e nel 2010 ha di fatto impedito la realizzazione dell’area di libero scambio nel Mediterraneo. Quella stessa Germania che non ha esitato ad umiliare la Grecia - pur non esente da pesanti responsabilità -  ed a finanziare il premier turco Erdogan perché facesse il “lavoro sporco” di intercettare con metodi inaccettabili i migranti che provengono da est, dando vita ai lager del terzo millennio.

Né può farsi affidamento sulle nazioni di quello che un tempo chiamavano BENELUX che già meditano in queste ore propri referendum o sulle lontane terre scandinave che, persino nella semidesertica Finlandia che pure deve tutto all’Unione ed ai ben utilizzati fondi strutturali, mostrano insofferenza verso i flussi migratori da cui sono molto parzialmente interessati.

Le new entries dei paesi baltici e slavi,  in cui una destra xenofoba e prepotente sta pervadendo menti da troppo poco tempo abituate alla democrazia occidentale, finiranno col trovare in Vladimir Putin il proprio riferimento e soprattutto il proprio finanziatore.

Cosa faranno l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia,  sempre più incapaci di trovare una propria strada mediterranea verso lo sviluppo e la cui larga parte del debito pubblico non è più interno ma si trova nelle casse delle banche tedesche ? Basteranno leadership traballanti e movimenti velleitari a contrastare la protesta interna che ancora una volta trova nei migranti un nuovo capro espiatorio piuttosto che una risorsa indispensabile per società ormai invecchiate ?  Non è dato saperlo, ma i recenti successi del Movimento 5 Stelle in Italia possono essere  indicatori significativi circa l’avanzare di una politica che non sarà - forse - più “anti” ma, certamente non lascia comprende cosa essa veramente proponga in ordine ai grandi temi della contemporaneità.

La politica internazionale si regge da sempre sull’esile equilibrio delle forze in campo. Per decenni essa ha trovato nella contrapposizione tra i blocchi un pur discutibile assetto. Dopo la caduta del Muro di Berlino, è toccato all’idea di superare la CEE al fine di determinare un nuovo equilibrio che trovasse nell’integrazione “conveniente” il collante tra nazionalità diverse e sovente contrapposte,  disposte ad intraprendere la strada dell’ Unione, prima economica e presto politica. L’errore che oggi paghiamo a carissimo prezzo è quello di non aver saputo invertire la sequenza, ritrovandoci in un’ Europa dei banchieri piuttosto che degli statisti.

La paura per il “diverso”  ha fatto il resto. Quella stessa paura che indusse  l’Europa a non ostacolare l’ascesa di Adolf Hitler,  in funzione anticomunista,  salvo a pentirsene amaramente quando fu troppo tardi. E’ quella stessa paura che oggi genera ostilità - quando non lucra profitti - nei confronti di chi fugge dall’orrore di guerre note o dimenticate di cui il pianeta è disseminato.

Risuonano in queste ore parole logore volte a rassicurare circa la tenuta finanziaria dell’Unione ed a promettere nuove politiche più attente alla dimensione sociale. In realtà, nulla sarà più come prima poiché il breve braccio di mare oltre Calais è diventato un oceano dove galleggiano i relitti dei sogni di più di una generazione e sulle cui sponde opposte aleggiano non la promessa roosveltiana di un nuovo mondo possibile e migliore, ma il delirio di Donald Trump e i demoni del passato che egli rappresenta ed evoca.




Una delle più belle sequenze dell’indimenticabile film di James Ivory “Quel che resta del giorno” (The remains (!) of the day) uscito nel 1993,  si chiude con il rimpianto dei  protagonisti per un destino comune che si sarebbe potuto compiere anni prima se solo lo si fosse voluto. Nella pioggia battente sul lungomare di Brighton i due, ormai anziani,  si salutano, ben consapevoli, nonostante cortesi rassicurazioni reciproche,  che non si rivedranno mai più. Ciascuno seguirà in solitudine ciò che resta della giornata della propria vita.

Sotto l’ennesimo temporale di questo giugno triste, mentre ostinatamente vogliamo continuare ad aggrapparci a quel che resta delle nostre speranze,  ci è accaduto di essere attori e corresponsabili di una pagina indimenticabile di Storia di cui avremmo tanto voluto non doverci vergognare con quanti verranno dopo di noi.




Pubblicato da Sicilia Informazioni il 25 giugno 2016






sabato 14 novembre 2015

Guerra e fantasmi, Parigi come Beirut: è ora di togliersi i guanti?



"Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra”. 
   Con queste memorabili parole Winston Churchill stigmatizzava nel 1938 l’esitazione della Gran Bretagna e l’ignavia delle democrazie occidentali nel contrastare con ogni mezzo l’espansione del nazismo in Europa. Molti decenni dopo quel monito risuona tra le sirene delle ambulanze parigine e i fantasmi di un passato che ci illudevamo di dimenticare si intravedono tra il fumo e le macerie delle esplosioni.
    Come nel peggiore degli incubi, più di cento persone che trascorrevano il venerdì sera allo stadio e nei locali della città risultano morte. 

       Parigi brucia? 
    Come nel film diretto nel 1966 da René Clément, ispirato all’omonimo libro di Larry Collins e Dominique Lapierre, chi dall’altra parte del Mediterraneo è tenuto al corrente dai propri sodali sulla riuscita dell’azione combinata posta in essere poche ore fa ?
    Mentre si inseguono di momento in momento le notizie di attentati in alcune altre zone della città, si ha la sensazione di un vero e proprio attacco terroristico ad obiettivi multipli con sette gruppi di fuoco. Si tratta di un evento mai registrato in Occidente che si sta svolgendo in diretta sotto i nostri occhi, consentendoci di guardare le scene di panico e di sentire gli spari, le invocazioni dei feriti, le grida di esaltazione lanciate dai terroristi.


   Il panico sembra dilagare nelle zone colpite e frotte terrorizzate di parigini esitano tra il timore di muoversi da dove si trovano e il bisogno di correre verso casa, sfidando il lancio delle granate, in cerca di un rifugio sicuro. Una nuova Beirut nel cuore dell’Europa sembra ora sancire come sia finita l’epoca dell’illusione che il terrorismo islamico fosse una questione di altre terre, di altre culture, di un’altra umanità lontana dall’Europa ricca e “felice”.
    E’ impossibile narrare sulla carta una cronaca che può essere seguita in tempo reale solo attraverso le televisioni di tutto il mondo. Alcuni fatti sembrano pero chiari sin da ora: l’attacco è stato pianificato militarmente da un mente unica, le rivendicazione da parte dell’ISIS si susseguono sui social network, la gravità della situazione ha indotto il presidente Hollande ad assumere scelte da stato di guerra: chiusura delle frontiere, mobilitazione delle forze armate e dei corpi speciali, invito ai cittadini parigini a restare chiusi in casa.
  Altrettanto chiari sono ormai gli errori commessi dopo l’attentato a Charlie Hebdo nel gennaio scorso.
  Il primo è senz'altro quello di avere ritenuto di applicare le categorie di pensiero occidentali nel contrasto con forze che sembrano emerse dal peggior medio evo e con le quali è ormai impossibile ogni tentativo, peraltro finora frustrato, di dialogo. Il secondo è quel residuo pudore di pronunciare la parola “guerra” pur davanti all’evidenza di un attacco ormai continuo al paese simbolo di tutto ciò che l’Europa rappresenta nel mondo. Il terzo, e più grave, è il ritardo con cui stiamo constatando l’ennesimo fallimento delle Nazioni Unite, ormai incapaci di giustificare la propria esistenza dinanzi al mondo intero.
   Persino il messaggio di Ban Ki-moon appare patetico mentre invita terroristi pronti a farsi ammazzare a consegnare gli ostaggi: l’ennesima dimostrazione di non aver ancora compreso con chi e con che cosa abbiamo a che fare.
   Nonostante le parole di Obama che ha accostato quanto sta accadendo a Parigi al dramma dell’11 settembre 2001, si ha come la sensazione che esse cadano ormai nel vuoto e che non ci sia più spazio per dichiarazioni, per marce di solidarietà e per inviti alla cautela e alla prudenza.
   Ancora una volta intelligence e diplomazia hanno fallito come è normale che accada ove non si comprende che i mostri che ci attaccano non parlano alcuno dei linguaggi della modernità. Per i terroristi islamici, infatti, essa non solo non esiste ma rappresenta il vero nemico da abbattere e distruggere al pari delle architetture di Palmira e di quanti hanno tentato invano, anche a costo della propria vita, di proteggerle.

L'archeologo Khaled Asaad, 82 anni, decapitato dall' ISIS nel scorso mese di agosto
   Purtroppo sappiamo già cosa accadrà. La Francia si muoverà in modo autonomo costringendo anche gli alleati a passare dalla guerra dei droni a quella molto più drammatica “degli scarponi sul suolo”.
   Le destre nazionaliste e xenofobe troveranno ulteriore terreno fertile sia in patria che nelle altre nazioni europee, già avviate in tale pericolosa direzione. Le politiche verso i migranti provenienti da paesi islamici saranno fortemente riviste e forse bloccate completamente per mesi.
   Molte comunità islamiche, non soltanto in Francia, saranno oggetto di forti restrizioni delle libertà personali e subiranno una pressione sociale senza precedenti che potrebbe innescare focolai di rivolte locali e alimentare tra i più giovani il desiderio di arruolarsi nell’ISIS, sia raggiungendone i campi di addestramento in medio oriente, che dando vita ad autonome cellule locali, assolutamente mimetizzate e pronte a nuovi attentati.
   Ciò che, se possibile, preoccupa ulteriormente è che il segnale dato ieri sera possa rappresentare il passaggio dal tempo di iniziative di alcuni terroristi isolati a un vero e proprio invito a tutte le cellule fondamentaliste dormienti in Francia e negli altri paesi europei ad iniziare la jiad nell’odiata terra dei “cristiani” come l’ISIS chiama l’Europa e il cui principale centro spirituale si appresta tra pochi giorni a celebrare il Giubileo di quella Misericordia che stanotte è stata negata a decine di uomini, donne e bambini.
   Ci attendono ore durante le quali l’animo europeo sarà drammaticamente travagliato, diviso tra la volontà di restare fedele ai valori di civiltà su cui si è fondato e la necessità di difendersi, attaccando, da una forza della storia che emerge dal passato con ferocia inaudita e pretende di portare indietro l’orologio del mondo.
   Pochi minuti fa a Parigi il faro della Ragione che brilla sulla cima della Tour Eiffel e che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo è stato spento in segno di lutto. L’unica speranza nella notte di questo tragico venerdì di sangue è di riaccenderlo presto perchè la necessità di reagire non travolga tutto ciò che ci fa europei ed occidentali, trasformandoci, come i terroristi vorrebbero, in ciò che abbiamo scelto di seppellire per sempre.
Articolo pubblicato da Sicilia Informazioni. com il 14 novembre 2015

lunedì 2 novembre 2015

Pasolini e il viaggio in Sicilia: un barocco che pare di carne




  Nella notte tra l’uno e il due novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini veniva massacrato selvaggiamente sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. Lascio ad altri commentatori ogni riflessione sulla vita, sull’arte e sulla morte di uno dei più gradi intellettuali italiani del ‘900 e, nel silenzio della nostalgia e del rimpianto, preferisco rievocare in queste righe il ricordo di un viaggio che egli compì nell’estate del 1959.

   Pasolini percorse la costa italiana al volante di una Fiat Millecento: “La lunga strada di sabbia” contiene il diari di quel viaggio “corsaro” nel cui contesto verrà pure rievocato il viaggio a Scicli (sulla delicata situazione degli aggrottati di Chiafura) che condivise con Guttuso, Trombadori e altri intellettuali del Pci più glorioso e mitizzato.


  Il brano che segue racconta la tappa da Messina a Pachino.
“Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come con Lawrence a Ravello, ma di gioia.
Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: come niente qui, potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annunzio, alla Gide. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. Lascio andare Taormina, che è indubbiamente una cosa d’una bellezza suprema (ma dove, come a Positano e a Maratea, io non mi sono trovato bene): posso però affermare che il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire.
Lo dico così, da turista. Approfondendo, conoscendo meglio, non solo con gli occhi, con le narici, le ragioni di un così improvviso amore devono risultare ben vere e ben profonde. Ma il mio viaggio mi spinge nel Sud, sempre più a Sud: come un’ossessione deliziosa, devo andare in giù, senza lasciarmi tentare.
Lascio gli enormi lidi di Catania, è notte, giungo a Lentini. Scendo per la cena: ma lì un profumo di limoni, una luna grossa come non l’ho mai vista, della gente che non aspetta altro che parlare, mi arresta. Fino dopo mezzanotte non mi so decidere a lasciare i nuovi amici che mi sono fatto, che mi salutano come ci conoscessimo da anni, uno dicendo: “Iddu ‘u core bono l’ave!”: e solo perché ho parlato un po’ con loro, dei loro problemi, del loro futuro.

Pachino, luglio più a Sud di così, è impossibile. Passo Noto, passo Avola. Giungo a Pachino, ch’è una cittadina piena di vita, di gente stupenda: ma non mi fermo, vado ancora più a Sud, arrivo a Capo Passero: una lingua di terra gialla con un faro bianco: e una selva di fichi d’India intorno, oltre le file di muriccioli sgretolati. E non mi fermo ancora: vado più giù, a Porto Palo, ch’è un paesetto miserando, acquattato dietro quella lingua di terra, con delle file di casucce rosse, e l’acqua degli scoli che passa in canaletti perpendicolari alla strade: la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce.
E non mi fermo ancora: arrivo al porticciolo di Porto Palo, dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India,con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: «Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama?». «Isola di Porto Palo!» mi fa, sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia.
Siracusa, luglio (…) Poi lasciamo l’Arenella, con le sue famiglie d’avvocati, e corriamo in giro: nemmeno a farlo apposta sulla nostra strada scorre l’Anapo. Figurarsi se ce lo lasciamo sfuggire. Ci incamminiamo per una stradina polverosa, lungo un campo di liquerizia che odora acutamente, ed ecco, seguito da una fila di ulivi, di carrubi, di fichi d’India, l’Anapo che sciacqua via verde, caldo, con la corrente zeppa di papiri. «I papiri, i papiri! – grida Adriana felice – Ci sono solo qui e in Egitto, te ne rendi conto?». La sente un ragazzo, che passa di lì: e, no, non esagero, ha una faccia antica, veramente, non so bene se fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale, e quelle schiene con le spalle sporgenti come si vedono dipinte solo nei vasi. Questo ragazzo, senza dir niente corre giù per la riva verdissima dell’Anapo, e strappa tre lunghe canne di papiro, con la loro frangia verde e sottile sulla cima. Le dà a Adriana, che tutta felice le afferra, se le stringe in mano. Davvero le donano”.

   Quel viaggio non fu soltanto suggestione e incantamento. La relazione tra Pasolini e la Sicilia fu insieme la tappa esistenziale e l’ ispirazione creativa che ritroviamo nelle riprese di “Comizi d’Amore” (1963), “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), “Teorema” (1968), “Porcile” (1969), “I Racconti di Canterbury” (1970); la storica messa in scena dell’ “Orestea”, al Teatro greco di Siracusa nel ’59 con Vittorio Gassman.
  Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì su una rivista romana “La libertà” il primo scarno libello del maestro di Racalmuto, “Le Favole della dittatura” di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale che Sciascia ricordò in “Nero su nero” nel 1980.


“… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso.
Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.
E voglio ancora dire una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del «Mondo», una lettera a Italo Calvino.”

  Quanto manca oggi Pasolini all’Italia? Quali editoriali avremmo letto sui principali quotidiani ad opera di chi aveva scritto “ Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”
  Quanti ne abbiamo amato la poetica e l’impegno civile possiamo solo distinguere la sagoma irrequieta che dinanzi ai tanti drammi del nostro Paese dall’innocenza ormai perduta sembra fremere, senza pace, senza riposo. A noi, timidi accattoni di residue speranze, resta il compito in cui ci fu maestro: rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono – e si amano – le lucciole.

Pubblicato da Sicilia Informazioni.com il 2 novembre 2015

domenica 18 ottobre 2015

Sicilia ultima in ogni settore, il cambiamento verrà da fuori?




Nella fase finale dell’interminabile tramonto dell’era Crocetta cominciano ad agitarsi le acque della politica siciliana dalle quali dovrà prima o poi emergere un nuovo stile di governance in grado di colmare l’enorme divario che ormai caratterizza l’Isola rispetto al resto del Paese.
Non vi è infatti rapporto o classifica che vedano la Sicilia in posizioni diverse dalle ultime in ogni settore economico, in ogni ambito sociale, in ogni aspetto della qualità della vita.

A poco vale l’ossessivo ritornello della ripresa turistica che, come molti sanno, non è stata l’esito di politiche di attrazione né frutto di investimenti specifici quanto piuttosto,  in larga misura, la conseguenza dell’inevitabile flessione delle presenze straniere in Tunisia e in altre aree del Mediterraneo caratterizzate da forte instabilità e dal rischio di attentati terroristici.

La Sicilia dunque è ultima, oltre che nei numeri che contano,  anche nell’immaginario collettivo atteso l’immutato livello di povertà, di disoccupazione, di emigrazione giovanile, intellettuale e non e su di essa pesa ancora l’ombra di collusioni o di contiguità tra la politica e la criminalità organizzata nelle sue innumerevoli mutazioni. 

Esattamente come venti o trenta anni fa, seppur con tonalità e sfumature diverse, la Sicilia fa notizia – e, sovente, spettacolo -  per il degrado del territorio, l’insipienza della classe politica, la labirintica amministrazione,  la subalternità dell’imprenditoria, l’impoverimento del ceto intellettuale, l’assenza di grandi iniziative che oltrepassino la specifica durata e consentano di apprezzarne risultati duraturi nel tempo.

Una regione di cinque milioni di abitanti non può reggersi sulla bellezza superstite dell’ambiente né sulla retorica del patrimonio storico e artistico specie se entrambi sono ampiamente condizionati dalla mancanza di risorse per curarne la salvaguardia, la manutenzione e uno sviluppo moderno che oltrepassi abusate categorie di intervento e un innegabile obsoleto approccio conservativo.

La Sicilia che ancora una volta, nonostante la posizione geopolitica e la tradizione di terra d’incontro, non è riuscita a trovare la propria strada per entrare nella modernità, sembra consolarsi con i ritagli di un passato spesso sopravvalutato e in qualche caso storicamente distorto.

Ecco allora il patetico trionfo del cibo di strada, dei fasti del passato, dei richiami ad una Sicilia Felicissima che non è mai esistita in quanto invece  terra povera, eternamente subalterna, più furba che intelligente, ossessionata dal potere e da un cupo sentimento di dissolvimento mascherato da una finzione di “prorompente” vitalità.



Può essere utile ricordare come Gesualdo Bufalino, attento conoscitore dell’animo siciliano e schivo intellettuale di provincia tardivamente riconosciuto a livello internazionale (Campiello 1981 e  Premio Strega nel 1988) descrivesse l’animo dei propri conterranei nell’ Identikit del Siciliano Eccellente:

“Il Siciliano… tende a surrogare il fare col dire; gode del pessimismo della volontà; ama il razionalismo sofistico; vive il sofisma come passione; è animato da spirito di complicità contro il potere, lo Stato, l’autorità, - intesi come "stranieri"; vive orgoglio e pudore in un inestricabile nodo; ha una sensibilità patologica al giudizio del prossimo; ha un forte sentimento dell’onore offeso (ma spesso solo quando il disonore sia lampante e non prima); percepisce la malattia come colpa e vergogna; ha un forte sentimento del teatro e dello, spirito mistificatorio; predilige la comunicazione avara e cifrata (fino all’omertà) o in alternativa l’estremismo orale e l’iperbole dei gesti; è accecato da un sentimento impazzito delle proprie ragioni, della giustizia offesa; esibisce vanagloria virile e alterna festa e tristezza negli usi del sesso; ha soggezione del clan familiare, specialmente della madre padrona; esprime un sentimento proprietario della terra e della casa come artificiale prolungamento di sé e sussidiaria immortalità; è attanagliato da un sentimento pungente della vita e della morte, del sole e della tenebra che vi si annoda”. ( Cere perse, Sellerio, Palermo, 1985)

 Bufalino avrebbe rivisto oggi le proprie opinioni sui siciliani? L’automobile che lo falciò in un incrocio alla periferia di Vittoria nel 1996 ha impedito di saperlo.

Tuttavia, chi scrive lo ritiene improbabile tenuto conto che molte delle caratteristiche descritte sono ancora oggi rintracciabili persino nei giovani siciliani che non hanno ancora lasciato la terra in cui sono nati. 



Per le decine di migliaia che se ne sono andati altrove, c’è da augurarsi che la profezia che Giuseppe Tomasi di Lampedusa pone sulle labbra del Principe di Salina sia ancora valida.

“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.”

Evocati due tra gli inascoltati cantori della sicilianità, spesso fraintesi e interpolati, non vi è dubbio che sul versante della politica le caratteristiche descritte da Bufalino siano ampiamente rinvenibili, visibilmente incarnate e vadano tenute presenti nella fase in cui si anima il dibattito sul prossimo Presidente della Regione.

Sembrano delinearsi al riguardo alcune principali “scuole di pensiero”: da un lato c’è chi cerca il consueto Uomo delle Provvidenza, un candidato cioè che incarni le doti del superuomo, che sia conosciuto e riconosciuto anche fuori dall’Isola, che sappia incantare le folle descrivendo leopardiane “magnifiche sorti e progressive”. Non sembra di vederne alcuno all’orizzonte se non rivolgendo all’indietro di almeno venti anni un immaginario cannocchiale che cerchi le occasioni perdute. In ogni caso, del limite e dei rischi di una tale ipotesi siamo oggi ben consapevoli.

Dall’altro lato soffia il vento della cosiddetta antipolitica. Si dimentica però che, come qualcuno ha notato,  la vera antipolitica si astiene e non va alle urne come ampiamente dimostrato da decine di consultazioni locali e nazionali di anni recenti. Ciò che resta è un movimentismo che, pur essendo liquidato troppo spesso con tanti luoghi comuni, sembra conservare un richiamo ad una mitica democrazia diretta ed ha dalla propria parte una componente generazionale di indubbio interesse se paragonata all’età media delle classi politiche che si sono finora manifestate negli schieramenti tradizionali. 

Pur con molta cautela, il sociologo della politica potrebbe rintracciarvi il seme di una classe dirigente allo stato nascente che potrebbe nel tempo aspirare a costituirsi come tale ed a presentarsi agli elettori con quella concretezza e credibilità cui ancora aspira.

Non desiderando annoiare il lettore, c’è infine la scuola di pensiero che vede nell’utilità di un quadro regionale organico a quello nazionale una garanzia per la Sicilia di beneficiare di maggiore attenzione e di essere destinataria di investimenti e scelte strategiche conseguenti

Ma qui fa difetto la memoria remota poiché qualcosa dovrebbe essere stata imparata dai casi in cui ciò si verificò e anche la memoria più recente, tenuto conto della posizione di siciliani ai massimi vertici dello Stato e l’algida distanza da molti di essi tenuta nei confronti della propria regione, ad eccezione, beninteso, dell’immancabile presenza nell’ affollato palcoscenico su cui si recitano abusati copioni che trattano di mafia, antimafie et similia.

Non appare ancora avere dignità adeguata la consapevolezza di quanto il vero handicap della Sicilia stia nell’assenza di una classe dirigente che, anche se formatasi all’ombra di un leader, ne abbia raccolto gli insegnamenti e non solo gestito i voti e si sia costituita come superamento di se stessa e del leader medesimo, rinnovandosi, favorendo la crescita di giovani di qualità, spianando loro la strada piuttosto che decidendo di farne eterni quanto improbabili delfini condannati ad invecchiare in seconda o terza fila con un destino simile a quello di Carlo d’Inghilterra.

Se vi fosse in Sicilia una sorta di Banca d’Italia, si potrebbe fare ricorso al vivaio di dirigenti  formatisi sotto la guida di maestri come Carlo Azeglio Ciampi, se in anni recenti si fosse investito in scuole di alta formazione una ricerca fruttuosa potrebbe essere esperita tra gli allievi più brillanti di Gabriele Morello o di Salvatore Teresi.
  
Purtroppo l’assenza del tempo futuro nella lingua corrente ha fatto si che esso venisse sottratto ai siciliani di ieri e oggi. Ed è di ciò che la Sicilia paga oggi il prezzo più alto, non avendo voluto guardare oltre il contingente interesse di quanti l’anno governata con provincialismo e brama di immortalità politica, frustrando e rendendo vani i tentativi coraggiosi di chi è rimasto per impegnarsi pur consapevole di mettere a rischio il proprio destino personale.

Alla vigilia di quella che potrebbe essere definita come l’ultima possibilità per evitare gli errori del passato,  appaiono profetiche le parole che Leonardo Sciascia scriveva già  nel  1964 ad Italo Calvino:



"Della Sicilia si sa ormai tutto, assolutamente tutto. Però questa compiutezza e chiarezza non vengono anche dal fatto che la Sicilia è, nella sua realtà, deserto? (...) Ormai c' è più Sicilia a Parigi che a Racalmuto, nella Torino razzista che nella Palermo mafiosa. Bisogna avere il coraggio di seguire questa Sicilia che sale verso il Nord, per trovare ragione più valida (almeno per oggi) di scrivere" .

Oggi una Sicilia migliore sta crescendo altrove e inevitabilmente si sta contaminando con il futuro che avanza nel mondo piuttosto che crogiolarsi nell’alibi di una nostalgia delle contaminazioni del passato da cui discende.

Chissà allora che non ci sia un’ obbligatoria via da percorrere, quella della diaspora dell' emigrazione (non solo intellettuale) per comprendere la sostanza dei fenomeni siciliani, ma anche per raccontare il ruolo che la Sicilia ha giocato, nel bene molto più che nel male, nell' intera vicenda di crescita del nostro Paese. Sicilia internazionale, ricca di risorse, capace di produrre cultura e ricchezze, ma anche di rimanerne senza

E che sul filo che lega "i siciliani di scoglio", quelli che rimangono aggrappati alle rocce dell' isola, chiusi nei suoi confini e "i siciliani d' alto mare", che rompono l’incantesimo dell' insularità e giocano su terreni molto più ampi si sia capaci di abbandonare la logora zattera di un’autoreferenzialità impossibile e di tessere una nuova vela su cui soffi quel vento del cambiamento al quale finora, per suprema arroganza, abbiamo negato la prua.


Pubblicato su Sicilia Informazioni. com l' 11 ottobre 2015