sabato 28 febbraio 2015

Da Filaga alla “Leopolda Siciliana”: 20 anni per scongelare i partiti.





    C’stato un tempo in cui i partiti europei si riconoscevano all’interno di precisi confini ideologici sorti  nell’800  e sviluppatisi lungo l’intero XX secolo,  con particolare radicamento durante il periodo della Guerra Fredda.

   Gli iscritti e i militanti, in genere coincidenti, avevano come riferimento le due principali esperienze politiche del ‘900,  l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America e i rispettivi sottoprodotti politici quali le socialdemocrazie dell’Europa scandinava, l’esperienza della Jugoslavia del maresciallo Tito e, sull’altro versante,  il modello liberal britannico, di plurisecolare tradizione, l’esperienza francese. 

   Persino i neo fascismi considerarono per oltre trent’anni la Spagna di Franco e il Portogallo di Salazar, nazioni rimaste neutrali durante il conflitto, un proprio, seppur nostalgico, riferimento e in molti casi un sicuro rifugio per i propri reduci e per i terroristi neri.

    Il ’68 radicalizzò le posizioni e ulteriori riferimenti a sinistra furono la Cina di Mao nelle diverse fasi ed evoluzioni, la Cuba di Castro, il Vietnam di Ho Chin Minh e del Generale Võ Nguyên Giáp, il teorico della guerriglia scomparso nel 2013 fa alla veneranda età di 103 anni.
Rispetto a tali riferimenti,  nei partiti italiani nacquero simboli e leaders, si introdussero nella lingua parlata e scritta neologismi e stili di abbigliamento il cui uso definiva comportamenti e costruiva identità che duravano in genere tutta la vita e influenzavano la formazione familiare e scolastica nonché le scelte professionali delle giovani generazioni.

   Poi venne, imprevisto seppur prevedibile, il 1989 con il proprio dirompente portato epocale e la corsa al riposizionamento in nuovi soggetti politici rimasti poi negli anni successivi confusi e in mezzo al guado. Fu così per il Partito Comunista con la Svolta della Bolognina, per il Movimento Sociale con il Congresso di Fiuggi, per la Democrazia Cristiana e per il Partito Socialista confluiti in larga misura nella nuova aggregazione guidata da Silvio Berlusconi e da Antonio Martino e, nel Nord Est del Paese,  nel movimento identitario guidato da Umberto Bossi che introdusse due nuove categorie del pensiero politico, la secessione e  il federalismo. Nuove parole guida che premiarono il neo nato movimento con uno straordinario successo alle elezioni politiche del ’92, conquistando dopo il più  caotico biennio della storia repubblicana, nel 1994 la Presidenza della Camera dei Deputati con una giovanissima Irene Pivetti, oggi dimenticata a favore della più famosa sorella,  l’attrice Veronica la professoressa televisiva più amata dagli italiani.

   Nel volgere di circa due decenni l’appartenenza ferrea a questo o a quel partito espressa in visioni del mondo spesso inconciliabili, in convinzioni inamovibili e in di stili di vita e modalità di comunicazione inconfondibili,  si è trovata a riconoscere l’incontrovertibile realtà di un mondo sempre più globale, interculturale e “mescolato” in modo massiccio nel mondo esterno e costantemente in crescita anche in Italia. Anche a motivo delle leggi elettorali, i partiti si sono trasformati in vaste aggregazioni o case: i Progressisti, la Casa delle Libertà, la rete degli Antagonisti, i Federalisti di ogni genere ed origine.
Nonostante l’alleggerimento ideologico, le appartenenze sono rimaste evidenti e i recinti,  seppur sconnessi, mantenuti. A differenza di pochi casi di trasformismo parlamentare, sovente dovuti all’aspirazione di mantenere la poltrona anche in futuro, ancora negli anni ‘90 nel mondo dei militanti le differenze rimasero marcate, gli accessi ben presidiati, gli eretici subito individuati e messi ai margini.

   La cosiddetta Primavera di Palermo della fine degli anni ’80 fu il primo esempio nazionale di rottura dei recinti ideologici, di scongelamento delle appartenenze intorno ad un’idea che vedesse identità diverse impegnate per un progetto politico comune. Era nata la Rete, il Movimento per la Democrazia che vedeva insieme cattolici e comunisti, liberali e ambientalisti, uomini e donne liberali e di destra. Persone perbene sinceramente interessate, nella drammatica situazione del Paese di quegli anni,  ad aggregarsi andando  oltre gli steccati tradizionali e riconoscendosi, soprattutto in Sicilia, nella questione morale e nella lotta alla mafia. Le uniche discriminanti erano  la limpidezza delle storie personali e l’assenza di ogni legame con il sistema politico-mafioso del passato recente. 

   



      Nell’atto di nascita di quel Movimento volutamente “ a termine” la definizione di Partito Democratico come “campo aperto”  rappresentò per la prima volta  l’orizzonte valoriale di riferimento e la prospettiva politica da trasformare in realtà prima possibile. Animati da Padre Ennio Pintacuda, il gesuita sociologo  che aveva “cresciuto” i Mattarella e gli Orlando, dialogando al contempo con i mondi del PCI e dell’ambientalismo e con giovanissimi magistrati che avrebbero onorato il Paese, gli incontri di Filaga, piccola frazione di Prizzi dal nome evocativo derivante dal termine che in greco vuol dire “confine”, furono il primo laboratorio in cui in Italia di delineò un percorso aperto al pensiero plurale e si affermò, con il concorso trasversale delle principali personalità politiche di allora, la fine del partito- recinto.

L’egemonia berlusconiana e l’incapacità dei Progressisti di bloccarne l’avanzata con una seria legislazione sul conflitto d’interessi, ricongelò il processo di uscita dalle appartenenze, arrestandone il processo, incrementando il frazionismo storico della sinistra e la litigiosità delle diverse anime inconciliabili del centro destra che non raggiunse mai l’obiettivo di liberalizzare quel Paese che tanto aveva affascinato gli italiani, desiderosi - sino al punto di non dare il giusto peso  agli opachi  trascorsi finanziari e personali di Berlusconi -  di quella modernizzazione che in Europa intanto si sviluppava sul piano delle riforme e delle infrastrutture per fare fronte alla nascente globalizzazione economica e sociale.

   Nell’autunno del 2007  sotto la pioggia e in lunghe file ai gazebo oltre 3 milioni e mezzo di persone tenemmo a battesimo il Partito Democratico quale tappa finale del processo di cambiamento del centrosinistra italiano e frutto maturo dell’Ulivo. Nonostante l’esposizione affiancata dei ritratti di Pio La Torre e di Piersanti Mattarella, di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer, di Romano Prodi e di Walter Veltroni, appariva prevalente l’identità post comunista che nel volgere di pochi anni si sarebbe tradotta nella Ditta di Bersaniana memoria. 

  Il messaggio era ancora ambiguo e non fu un caso che nelle elezioni politiche del 2008 Berlusconi vincesse le elezioni e governasse sino all’epilogo del 2011 sulle cui cause ancora oggi si affastellano le ipotesi più svariate e le teorie complottistiche più ardite.

   Nel triennio appena trascorso, nonostante il rigurgito populista che ha fatto irrompere il Movimento 5 Stelle nel panorama politico italiano con un affermazione oltre il 20% appena due anni fa,  il Partito Democratico,  ha vissuto un’accelerazione delle ragioni che lo avevano prima preconizzato e poi fatto nascere. La grave situazione economico finanziaria del Paese, un tasso di disoccupazione senza precedenti e il vicino incubo della situazione greca, hanno finalmente fatto comprendere come la chiave per restare in Europa da co-protagonisti fosse il definitivo avvio della stagione di quelle riforme per troppo tempo impedite dai resti di quell’impostazione post ideologica che ancora residuava nella componente maggioritaria del PD e che, sino al Governo Letta,  ne ha ritardato l’avvio.

    La supponente  superiorità morale di una sinistra che mai avrebbe dialogato su tale piano con Berlusconi, nonostante tutto ancora incontrastato leader – e finanziatore -  del proprio partito e l’indisponibilità del Movimento 5 Stelle a mettere a frutto il patrimonio di consensi acquisito nel 2013, ancora una volta avrebbe ritardato quel processo che, invece,  in appena dodici mesi sta trasformando l’Italia agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

   Non è questa l’occasione per dare un giudizio delle Riforme del Governo Renzi appena varate.  Molte di esse potranno essere valutate già alla scadenza naturale della legislatura, per altre occorrerà il giudizio della generazione che sta crescendo..

   Non si può tuttavia non rilevare che il sogno di un Partito Democratico, sempre più Comunità politica nazionale aperta ai contributi di tutte le culture politiche in funzione del comune obiettivo di modernizzare e di responsabilizzare ogni parte del Paese nel rispetto delle molte storie locali che lo definiscono, sembra realizzare quella profezia di convergenze sul Bene Comune che cessano finalmente di essere parallele per incarnarsi e intrecciarsi  nella storia quotidiana delle persone e rigenerando in esse quella fiducia nel futuro troppo a lungo data per impossibile.






   Ci sarà tutto il tempo negli anni che mancano alle prossime elezioni per separare il grano dal loglio e per impedire che un così grande progetto sia l’ascensore per chi intende riciclarsi, ricostruire verginità che non gli appartengono o mimetizzare responsabilità umane e politiche inconfessabili.


   Nel proliferare delle tante “Leopolde”  locali che a cominciare da Sicilia 2.0,   ri-animeranno l’Italia nei prossimi mesi,  va fatto crescere, piuttosto,  il desiderio di puntare più su ciò che unisce piuttosto che su ciò che divide: l’interesse supremo del Paese di rendere definitivo il superamento di quella soglia del XXI secolo sulla quale la politica italiana, impacciata da ancestrali paure verso chi è percepito come diverso,  ha troppo a lungo esitato.


Articolo pubblicato su Sicilia Informazioni.com  1 marzo 2015