domenica 18 ottobre 2015

Sicilia ultima in ogni settore, il cambiamento verrà da fuori?




Nella fase finale dell’interminabile tramonto dell’era Crocetta cominciano ad agitarsi le acque della politica siciliana dalle quali dovrà prima o poi emergere un nuovo stile di governance in grado di colmare l’enorme divario che ormai caratterizza l’Isola rispetto al resto del Paese.
Non vi è infatti rapporto o classifica che vedano la Sicilia in posizioni diverse dalle ultime in ogni settore economico, in ogni ambito sociale, in ogni aspetto della qualità della vita.

A poco vale l’ossessivo ritornello della ripresa turistica che, come molti sanno, non è stata l’esito di politiche di attrazione né frutto di investimenti specifici quanto piuttosto,  in larga misura, la conseguenza dell’inevitabile flessione delle presenze straniere in Tunisia e in altre aree del Mediterraneo caratterizzate da forte instabilità e dal rischio di attentati terroristici.

La Sicilia dunque è ultima, oltre che nei numeri che contano,  anche nell’immaginario collettivo atteso l’immutato livello di povertà, di disoccupazione, di emigrazione giovanile, intellettuale e non e su di essa pesa ancora l’ombra di collusioni o di contiguità tra la politica e la criminalità organizzata nelle sue innumerevoli mutazioni. 

Esattamente come venti o trenta anni fa, seppur con tonalità e sfumature diverse, la Sicilia fa notizia – e, sovente, spettacolo -  per il degrado del territorio, l’insipienza della classe politica, la labirintica amministrazione,  la subalternità dell’imprenditoria, l’impoverimento del ceto intellettuale, l’assenza di grandi iniziative che oltrepassino la specifica durata e consentano di apprezzarne risultati duraturi nel tempo.

Una regione di cinque milioni di abitanti non può reggersi sulla bellezza superstite dell’ambiente né sulla retorica del patrimonio storico e artistico specie se entrambi sono ampiamente condizionati dalla mancanza di risorse per curarne la salvaguardia, la manutenzione e uno sviluppo moderno che oltrepassi abusate categorie di intervento e un innegabile obsoleto approccio conservativo.

La Sicilia che ancora una volta, nonostante la posizione geopolitica e la tradizione di terra d’incontro, non è riuscita a trovare la propria strada per entrare nella modernità, sembra consolarsi con i ritagli di un passato spesso sopravvalutato e in qualche caso storicamente distorto.

Ecco allora il patetico trionfo del cibo di strada, dei fasti del passato, dei richiami ad una Sicilia Felicissima che non è mai esistita in quanto invece  terra povera, eternamente subalterna, più furba che intelligente, ossessionata dal potere e da un cupo sentimento di dissolvimento mascherato da una finzione di “prorompente” vitalità.



Può essere utile ricordare come Gesualdo Bufalino, attento conoscitore dell’animo siciliano e schivo intellettuale di provincia tardivamente riconosciuto a livello internazionale (Campiello 1981 e  Premio Strega nel 1988) descrivesse l’animo dei propri conterranei nell’ Identikit del Siciliano Eccellente:

“Il Siciliano… tende a surrogare il fare col dire; gode del pessimismo della volontà; ama il razionalismo sofistico; vive il sofisma come passione; è animato da spirito di complicità contro il potere, lo Stato, l’autorità, - intesi come "stranieri"; vive orgoglio e pudore in un inestricabile nodo; ha una sensibilità patologica al giudizio del prossimo; ha un forte sentimento dell’onore offeso (ma spesso solo quando il disonore sia lampante e non prima); percepisce la malattia come colpa e vergogna; ha un forte sentimento del teatro e dello, spirito mistificatorio; predilige la comunicazione avara e cifrata (fino all’omertà) o in alternativa l’estremismo orale e l’iperbole dei gesti; è accecato da un sentimento impazzito delle proprie ragioni, della giustizia offesa; esibisce vanagloria virile e alterna festa e tristezza negli usi del sesso; ha soggezione del clan familiare, specialmente della madre padrona; esprime un sentimento proprietario della terra e della casa come artificiale prolungamento di sé e sussidiaria immortalità; è attanagliato da un sentimento pungente della vita e della morte, del sole e della tenebra che vi si annoda”. ( Cere perse, Sellerio, Palermo, 1985)

 Bufalino avrebbe rivisto oggi le proprie opinioni sui siciliani? L’automobile che lo falciò in un incrocio alla periferia di Vittoria nel 1996 ha impedito di saperlo.

Tuttavia, chi scrive lo ritiene improbabile tenuto conto che molte delle caratteristiche descritte sono ancora oggi rintracciabili persino nei giovani siciliani che non hanno ancora lasciato la terra in cui sono nati. 



Per le decine di migliaia che se ne sono andati altrove, c’è da augurarsi che la profezia che Giuseppe Tomasi di Lampedusa pone sulle labbra del Principe di Salina sia ancora valida.

“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.”

Evocati due tra gli inascoltati cantori della sicilianità, spesso fraintesi e interpolati, non vi è dubbio che sul versante della politica le caratteristiche descritte da Bufalino siano ampiamente rinvenibili, visibilmente incarnate e vadano tenute presenti nella fase in cui si anima il dibattito sul prossimo Presidente della Regione.

Sembrano delinearsi al riguardo alcune principali “scuole di pensiero”: da un lato c’è chi cerca il consueto Uomo delle Provvidenza, un candidato cioè che incarni le doti del superuomo, che sia conosciuto e riconosciuto anche fuori dall’Isola, che sappia incantare le folle descrivendo leopardiane “magnifiche sorti e progressive”. Non sembra di vederne alcuno all’orizzonte se non rivolgendo all’indietro di almeno venti anni un immaginario cannocchiale che cerchi le occasioni perdute. In ogni caso, del limite e dei rischi di una tale ipotesi siamo oggi ben consapevoli.

Dall’altro lato soffia il vento della cosiddetta antipolitica. Si dimentica però che, come qualcuno ha notato,  la vera antipolitica si astiene e non va alle urne come ampiamente dimostrato da decine di consultazioni locali e nazionali di anni recenti. Ciò che resta è un movimentismo che, pur essendo liquidato troppo spesso con tanti luoghi comuni, sembra conservare un richiamo ad una mitica democrazia diretta ed ha dalla propria parte una componente generazionale di indubbio interesse se paragonata all’età media delle classi politiche che si sono finora manifestate negli schieramenti tradizionali. 

Pur con molta cautela, il sociologo della politica potrebbe rintracciarvi il seme di una classe dirigente allo stato nascente che potrebbe nel tempo aspirare a costituirsi come tale ed a presentarsi agli elettori con quella concretezza e credibilità cui ancora aspira.

Non desiderando annoiare il lettore, c’è infine la scuola di pensiero che vede nell’utilità di un quadro regionale organico a quello nazionale una garanzia per la Sicilia di beneficiare di maggiore attenzione e di essere destinataria di investimenti e scelte strategiche conseguenti

Ma qui fa difetto la memoria remota poiché qualcosa dovrebbe essere stata imparata dai casi in cui ciò si verificò e anche la memoria più recente, tenuto conto della posizione di siciliani ai massimi vertici dello Stato e l’algida distanza da molti di essi tenuta nei confronti della propria regione, ad eccezione, beninteso, dell’immancabile presenza nell’ affollato palcoscenico su cui si recitano abusati copioni che trattano di mafia, antimafie et similia.

Non appare ancora avere dignità adeguata la consapevolezza di quanto il vero handicap della Sicilia stia nell’assenza di una classe dirigente che, anche se formatasi all’ombra di un leader, ne abbia raccolto gli insegnamenti e non solo gestito i voti e si sia costituita come superamento di se stessa e del leader medesimo, rinnovandosi, favorendo la crescita di giovani di qualità, spianando loro la strada piuttosto che decidendo di farne eterni quanto improbabili delfini condannati ad invecchiare in seconda o terza fila con un destino simile a quello di Carlo d’Inghilterra.

Se vi fosse in Sicilia una sorta di Banca d’Italia, si potrebbe fare ricorso al vivaio di dirigenti  formatisi sotto la guida di maestri come Carlo Azeglio Ciampi, se in anni recenti si fosse investito in scuole di alta formazione una ricerca fruttuosa potrebbe essere esperita tra gli allievi più brillanti di Gabriele Morello o di Salvatore Teresi.
  
Purtroppo l’assenza del tempo futuro nella lingua corrente ha fatto si che esso venisse sottratto ai siciliani di ieri e oggi. Ed è di ciò che la Sicilia paga oggi il prezzo più alto, non avendo voluto guardare oltre il contingente interesse di quanti l’anno governata con provincialismo e brama di immortalità politica, frustrando e rendendo vani i tentativi coraggiosi di chi è rimasto per impegnarsi pur consapevole di mettere a rischio il proprio destino personale.

Alla vigilia di quella che potrebbe essere definita come l’ultima possibilità per evitare gli errori del passato,  appaiono profetiche le parole che Leonardo Sciascia scriveva già  nel  1964 ad Italo Calvino:



"Della Sicilia si sa ormai tutto, assolutamente tutto. Però questa compiutezza e chiarezza non vengono anche dal fatto che la Sicilia è, nella sua realtà, deserto? (...) Ormai c' è più Sicilia a Parigi che a Racalmuto, nella Torino razzista che nella Palermo mafiosa. Bisogna avere il coraggio di seguire questa Sicilia che sale verso il Nord, per trovare ragione più valida (almeno per oggi) di scrivere" .

Oggi una Sicilia migliore sta crescendo altrove e inevitabilmente si sta contaminando con il futuro che avanza nel mondo piuttosto che crogiolarsi nell’alibi di una nostalgia delle contaminazioni del passato da cui discende.

Chissà allora che non ci sia un’ obbligatoria via da percorrere, quella della diaspora dell' emigrazione (non solo intellettuale) per comprendere la sostanza dei fenomeni siciliani, ma anche per raccontare il ruolo che la Sicilia ha giocato, nel bene molto più che nel male, nell' intera vicenda di crescita del nostro Paese. Sicilia internazionale, ricca di risorse, capace di produrre cultura e ricchezze, ma anche di rimanerne senza

E che sul filo che lega "i siciliani di scoglio", quelli che rimangono aggrappati alle rocce dell' isola, chiusi nei suoi confini e "i siciliani d' alto mare", che rompono l’incantesimo dell' insularità e giocano su terreni molto più ampi si sia capaci di abbandonare la logora zattera di un’autoreferenzialità impossibile e di tessere una nuova vela su cui soffi quel vento del cambiamento al quale finora, per suprema arroganza, abbiamo negato la prua.


Pubblicato su Sicilia Informazioni. com l' 11 ottobre 2015







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