domenica 22 maggio 2011

Della vita e della morte di Giovanni Falcone




Non è facile ricordare Giovanni Falcone dopo 19 anni dalla strage di Capaci.
Non è facile separare la pienezza della sua vita e della sua morte dalla tanta retorica che ogni anno ne soffoca la straordinaria normalità attraverso la saturazione mediatica che, puntualmente, si rinnova.

Credo che il miglior modo di ricordarlo consista invece nell’accurata analisi della sua vita e delle ragioni della sua morte.

Giovanni Falcone non avrebbe gradito essere definito eroe, questa parola non gli piaceva ed era convinto che in realtà gli eroi non esistono: esistono persone comuni che si trovano a fronteggiare eventi eccezionali, rispetto ai quali non sono disposte a distogliere lo sguardo quanto, piuttosto, ad affrontarne le conseguenze con gli strumenti del proprio mestiere. Così il soldato diventa eroe in battaglia, il giornalista scrivendo senza padroni, il magistrato cercando la verità, il pubblico funzionario operando per il bene comune, il sacerdote amando le persone che il Dio in cui crede gli ha affidato.

Dunque sottrarre  Falcone ad ogni aureola artificiale ne rende concreto ed emulabile l’esempio da parte di quanti, senza per questo essere super uomini, possono seguirne la strada.

Non fare di Falcone un eroe restituisce ai più la possibilità di trasformare la quotidianeità della propria azione professionale e civile in un atto, non eroico ma “normalmente” dovuto per il cambiamento della propria e dell’altrui realtà.

Falcone conosceva, come tutti, la morte e la sofferenza. Ne aveva fatto esperienza indiretta attraverso la propria professione e la drammatica scomparsa di colleghi e collaboratori. La conosceva  e la rispettava ma non la temeva. Guardava ripetutamente negli ultimi mesi le straordinarie sequenze del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, giocava anch'egli con la morte la partita a scacchi che aveva come posta la vita e, come il protagonista del film, si preparava a darle un’inimmaginabile sconfitta. Spesso ricordava nelle schive interviste rilasciate che è meglio morire una volta piuttosto che, come è destino del vigliacco, mille volte nella stessa vita.

Nella professione aveva visto, soprattutto negli anni di una magistratura “disattenta” e negazionista nei confronti della complessità del fenomeno mafioso, morire mille volte molti propri colleghi non alla vita ma alla dignità e alla verità. Li aveva visti sacrificare sia l’una che l’altra all’arroganza e all’ambizione e, lasciando intendere tale progressivo convincimento,  ne aveva ricavato l’accusa di protagonismo e di ricerca della notorietà a tutti i costi, volta ad emarginarlo escludendolo da quella Direzione Antimafia che tanto era stata richiesta da Pio La Torre e da Cesare Terranova.

Credo che il momento in cui tutto ciò gli apparve con  chiarezza fu proprio durante il fallito attentato alla villa dell’Addaura dove nel giugno dell'89 trascorreva alcuni giorni di riposo. In quella circostanza e  dopo la drammatica esecuzione dell’agente Agostino e della giovane moglie Ida Castellucci appena tre mesi dopo, si rese conto che molti degli avversari che combatteva si nascondevano all’interno degli apparati cui egli stesso apparteneva. Quando comprese questo, lasciò capire che le “menti raffinatissime” non potevano risiedere in rozzi capi mafia che, seppur furbi e sospettosi , erano appena in grado di leggere e di scrivere.

E quando questa piena consapevolezza lo travolse distruggendo la fiducia nel suo stesso ambiente, comprese che era necessario andare proprio nel cuore dello Stato a cercare mandanti ed ispiratori di massacri, di inconfessabili connivenze e di storiche complicità.

Falcone probabilmente non sarebbe mai  morto se fosse rimasto in Sicilia, ma l’attentato alla sua vita doveva avvenire in Sicilia e così fu. Proprio come era già avvenuto, esattamente dieci anni prima, per il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

La spietata liturgia dell’omicidio doveva essere eclatante, dimostrativa e soprattutto riconducibile alla mafia e non ad altri e, quindi,  doveva avvenire in Sicilia e non altrove, dove, paradossalmente, sarebbe stato più facile. Ad essa doveva attendere un braccio armato che nascondesse, almeno agli occhi dei più,  i veri mandanti e i veri moventi.

La mafia si prestò ad essere quel braccio, sapendo che avrebbe affrontato la successiva inevitabile repressione cui presto si sarebbe posto rimedio con patti  scritti molto prima e il cui tradimento sarebbe poi stato all’origine degli attentati a Firenze e a Roma che servirono a ricordarli e, stavolta,  a farli mantenere,  a  chi - ed  è cronaca di nostri giorni - li aveva prima contratti, poi non rispettati e oggi “negati".

La morte e la vita di Giovanni Falcone vanno dunque lette insieme e non solo per la coerenza ideale che le lega, quanto piuttosto in un drammatico rapporto di causa ed effetto pertinente un livello istituzionale molto più elevato di quello per troppi anni preso in esame. Un omicidio di Stato, riconducibile alla lotta per la sopravvivenza di parte di una classe dirigente al tramonto, pronta a far patti con ogni genere di demone per garantirsi una nuova immunità nel mutato quadro domestico ed internazionale del potere.

Questa l’eredità pesante che Giovanni Falcone lasciò  a Paolo Borsellino e il cui peso enorme i si lesse negli occhi di quest'ultimo nei pochi mesi che lo separarono dal suo grande amico e da un assetto di potere che ha continuato a mantenersi tale senza grandi reali cambiamenti, celebrando ogni 23 maggio la data del proprio oscuro e inconfessabile successo.

Ma come nel finale del film di Bergman morire per salvare gli altri non  è mai sconfitta ma trionfo della vita, nella sua ultima partita quel pomeriggio a Capaci Falcone aveva beffato la morte, lasciato il messaggio che gli sarebbe sopravvissuto e che ora sancisce la vittoria di quella verità che per tutta la vita ha servito.








martedì 26 aprile 2011

Ciò che un giorno vedrò nella mia Città



I dipendenti regionali e dell'ARS scendere in piazza, in nome della questione morale.

I giovani siciliani di ogni orientamento politico occupare pacificamente Palazzo dei Normanni e dire BASTA.

L'arrivo al porto di una nave del riscatto da cui scenderanno  migliaia di giovani costretti a vivere fuori per poter studiare e lavorare, pur di  non umiliarsi con politici o imprenditori corrotti.

Il trasferimento della sede del Governo Regionale da Palazzo d'Orleans ad un altro qualsiasi edificio, per cancellare il ricordo delle cose orribili che da decenni vi vengono compiute.

Il conferimento del palazzo all'Università degli Studi di Palermo perchè diventi una porta della Sicilia verso il mondo intero.

Il Cardinale Arcivescovo di Palermo che annuncia la chiusura al pubblico della Cappella Palatina, sino a quando coesisterà con la sede di tutto ciò che è l'unica causa del degrado morale della Sicilia.

Gli assessori regionali del Governo Lombardo chiedere scusa ai siciliani e tornare alle proprie professioni con umiltà e in silenzio, per sempre.

Il Castello Utveggio assegnato quale sede permanente all' Agenzia Internazionale contro la Criminalità Organizzata.

Un brillante laureato di cultura Rom o Tunisina diventare Direttore Generale del Comune o della Provincia.

Magistrati, un tempo chiamati a "rischio",  passeggiare in bicicletta la domenica mattina con i propri figli al Giardino Inglese.

Un professore di latino e greco, salutato con rispetto dai genitori degli allievi che ha bocciato.

Tutto questo e molto altro io vedrò, come lo vedo adesso: possibile, necessario, dovuto a tutti noi.

mercoledì 13 aprile 2011

Un giorno saremo la Florida




Perchè i siciliani non reagiscono ?

Perchè nonostante la morte di Piersanti Mattarella e di Pio La Torre, dopo la Primavera di Palermo, le stragi di Capaci e di via D'Amelio, la retorica dell'antimafia, non è cambiato nulla ?

Perchè, dopo decenni di attesa che si realizzasse, attraverso l'elezione diretta del Presidente, la pienezza dello Statuto, il primo di essi è oggi in galera e il secondo potrebbe andarci ?

Perchè, se chiedete ai giovani siciliani se accetterebbero un lavoro da un imprenditore in odore di mafia o la raccomandazione di un uomo politico, i più vi risponderanno"sì" ?

Forse, perchè  è questo ciò che i siciliani  meritano.

Nella ricerca secolare di un protettore, ieri un re, oggi un altro e poi di padrini e di nuovi padroni, i siciliani hanno dimenticato cosa sia l'indignazione, la libertà, la dignità e si sono rassegnati, nel corso delle bufere che cambiavano la Storia, a cercare sempre una buca sottoterra dove rifugiarsi e piangere impotenti contro l'avverso destino.

Fuori il mondo cambia e travolge chi non cambia con esso.

Forse un giorno la Sicilia diventerà la Florida, ma i siciliani faranno i camerieri.

Serviranno decine di migliaia di tedeschi che sono stati nazisti e comunisti e nonostante ciò hanno saputo diventare la prima potenza europea: essi verranno non più per Goethe e per Federico II, ma perchè il soggiorno sarà economico e i proprietari degli alberghi, tedeschi.

Cucineranno a cena per pensionati inglesi ed americani che staranno tutto il giorno in spiaggia e la sera in discoteca, perchè nessuno avrà il coraggio di mostrare loro i monumenti degradati della  nostra storia.

Si esibiranno per i nuovi borghesi libici o tunisini che un giorno seppero dire basta e, riconquistata la libertà ed entrati nella post modernità  comprarono poi mezza Sicilia, a prezzi stracciati.

Alla richiesta di milioni di cinesi di assaggiare una caponata, risponderanno, attoniti, che non sanno cosa sia.

Guideranno con orgoglio visite turistiche alla finta casa di Montalbano e non sapranno nulla del Barocco di Noto.

Giunta la  sera, stanchi ma soddisfatti per le mance generose, faranno anch'essi il bagno in mare e si tufferanno dalla parte emersa della Torre Pisana, diventata il più grande acquario del mondo.

Finalmente scenderà la notte e,  nell'avverarsi di un'antica profezia, tutto troverà pace "in un mucchietto di polvere livida".

giovedì 17 marzo 2011

Fieri di essere italiani, resposabili di tale identità nel mondo, pronti ad accogliere quanti vorranno diventarlo

"Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri [antenati] di assisterci, forse temevamo che
nel farlo avremmo riconosciuto che la nostra individualità, che noi tanto riveriamo, non è interamente nostra. Forse temevamo che un appello a voi [padri] possa essere presa per debolezza. Ma siamo arrivati a comprendere finalmente che non è così, noi comprendiamo ora; ci hanno fatto comprendere, e assimilare la comprensione che, ciò che siamo è ciò che eravamo.
Abbiamo bisogno della forza e della saggezza per trionfare su i nostri timori, sui nostri pregiudizi, su noi stessi. Dateci il coraggio di fare ciò che è giusto"
Tratto da Amistad di Steven Spielberg.






    Grande giornata oggi, in un tripudio di sole, cielo terso, giovani dovunque, bandiere tricolore, una grande voglia di riscatto sociale, di riappropriazione del passato e del futuro, lontani da un presente che avvilisce e spaventa. E poi, musica, musica dappertutto, cantata, suonata, mimata, da uomini e donne di ogni età. 
  
   Può un rito collettivo così potente cambiare il corso delle cose ? Può restituirci il coraggio fisico ed intellettuale di dire quei sì e quei no che la prudenza di tutti i giorni induce a tenere dentro il nostro cuore e nel profondo della nostra mente?
 
   Io credo che oggi abbia messo radici qualcosa che potrebbe crescere,  ho sentito pronunciare dal Capo dello Stato parole forti e definitive, le ho viste raggiungere anche i più indifferenti, ho percepito un sentimento nuovo che, niente affatto retorico, è invece moderno e, per alcuni aspetti, inedito.

   Come se in tanti avessero intuito che ciascuno di noi è la ragione per cui sono vissuti e hanno lottato i nostri antenati e che, a nostra volta, abbiamo il dovere di esistere, di lottare e di costruire solo in funzione di chi verrà dopo di noi.

   Oggi, per la prima volta, ho sentito i grandi spiriti del passato uscire dalle cornici dei quadri nei musei, liberarsi dalla fissità del marmo dei Pantheon e dalla solennità mortuaria delle lapidi e camminarmi accanto non più come padri ma come fratelli.

   Ciascuno di essi mi ha sussurrato parole antiche e pure sempre nuove che indicano strade individuali e collettive che essi hanno percorso, con modalità e simboli diversi, e che aspettano anche me e la società in cui vivo. Parole che suonano aspre e dolci allo stesso tempo: parole aspre perchè definiscono valori, doveri, scelte dure e difficili che giungono a contemplare anche il sacrificio della vita, parole dolci perchè conferiscono senso e significato a quella vita di cui spesso facciamo spreco e che, solo in alcuni rari momenti o in circostanze particolari, viviamo come se stesse per terminare.
  
   L'italia, la terra dei miei padri e dei miei figli, non è un Paese eccezionale. I motivi sono tanti e diversi e non è questa la sede per esaminarli. L'Italia è, però, un Paese in grado di compiere, in presenza di specifiche circostanze, gesti eccezionali che la riscattano da una quotidiana, generalizzata apatia. e ce ne accorgiamo quando in gioco vi sono grandi emozioni, serie emergenze, grandi battaglie ideali.
  
  Allora il particolarismo guicciardiniano si trasforma nell'universalità di Dante, la furbizia del renitente o la viltà del disertore sfociano nell'eroismo dei due protagonisti de "La Grande Guerra" di Germi o del gigantesco Vittorio De Sica nel " Generale della Rovere", la mediocrità di Don Abbondio viene riscattata dall'orgogliosa umiltà del Padre Cristoforo, la strategia a tavolino di Cavour abbraccia il coraggio di Garibaldi e  trasforma il sogno mazziniano, destinato inevitabilmente a restare esule come il proprio autore,  in una realtà compiuta, pur tra mille conraddizioni.
  
  Il conformismo di intere generazioni di magistrati viene riscattato dal sangue di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e dei "giudici ragazzini" e si trasforma in piena assunzione di responsabilità, anche a costo di mettere a rischio il proprio destino istituzionale  e la propria "stabilità".

  Se potessimo "isolare", come in laboratorio, tale manifestarsi di moti d'animo in azioni concrete, avremmo a disposizione uno straordinario vettore di sviluppo e di civiltà e potremmo essere utili come e più di come lo fummo in passato, all'Europa e al mondo.
  
  Avremmo il coraggio di superare lo stupore e la prudenza interessata con cui assistiamo  inermi ad un dittatore che dopo 40 anni torna a schiacciare la domanda di cambiamento che sale del suo popolo, avremmo la forza di riconoscere la potenza dei nuovi linguaggi che salgono da uomini e donne nuove, non più collocabili nelle polverose categorie di "Sinistra" o di "Destra", piuttosto che rinchiuderci negli apparati garantiti dal tempo, acquisiremmo l'energia per dichiarare che il nostro Paese appartiene tanto a noi che ci siamo nati quanto a chiunque voglia viverci onestamente, senza rinunciare alla propria identità culturale o religiosa in nome di un melting pot anonimo ed omologante.
  
  Avremmo infine il coraggio di affidare questo Paese ai giovani, in un'immensa ed estesa "ritirata operosa" in ogni settore da parte di una generazione un po' egoista e troppo anziana per avere la voglia di correre quei rischi che sono l'unico varco che porta all'evoluzione dei singoli e della specie.

  Si, proprio quei giovani che le precedenti generazioni hanno inviato in tutte le guerre, costruendo poi, solo in parte, un Paese degno del loro frequente sacrificio.

  Si, proprio quei giovani che, frustrati da un '68 incompiuto, sono appassiti nel rancore, nella violenza o, più spesso, nel cinismo e nella disillussione.
  
  Il futuro ci sarà comunque e poiche non è così scontato come si potrebbe pensare che saranno i giovani a costruirlo da veri protagonisti,  dobbiamo aiutarli già adesso a farlo, non a nostro ma a loro modo, limitandoci a sostenerli, a incoraggiarli e a liberarli dai nostri pregiudizi e dalle nostre ubbie, pronti a farci da parte se la nostra "saggezza" dovesse sconfinare nella prudenza o in quella real politik della vita che si chiama paura di cambiare.

   Ecco, consegniamo ai nostri figli bianchi, neri, gialli, cattolici, musulmani, agnostici, questa Italia, fresca dei suoi primi centocinquantanni, limpida come la giornata che abbiamo vissuto, emozionata come forse è mai  stata, coraggiosa come sovente ha temuto di essere, libera di andare "per l'alto mare aperto".

   Non ce ne pentiremo e un giorno essi potranno dire di essere la ragione per cui noi oggi abbiamo vissuto.

   Palermo, 17 marzo 2011








sabato 19 febbraio 2011

L'era della liminalità: i popoli in movimento oltrepassano il confine della marginalità

Il Cairo, pochi giorni fa

Per una cronologia della scomposizione

1989
Cade il Muro di Berlino: il mondo non sarà più lo stesso, inizia la globalizzazione
2001 
Attentato terroristico, crollano le Twin Towers: il mondo sperimenta la paura globale
2008 
Crisi economica mondiale, crolla l'economia fondata sulla finanza: la paura diventa povertà
2011 
Medio Oriente, crollano i regimi autoritari: la rivendicazione del diritto universale ad avere un futuro diventa globale



   
Dopo appena pochi mesi dalla pubblicazione su questo blog della riflessione su "La realtà liminale", i fatti del Medio Oriente stanno disegnando una nuova geo-politica del diritto al futuro, marcando il superamento di uno degli ultimi limenes rimasti: la fatalistica rassegnazione alla marginalità, da sempre graduata con le espressioni "primo" "secondo" "terzo"......mondo.
Sembra sorgere, con l'inevitabile violenza che accompagna tragicamente i grandi cambiamenti epocali e le palingenesi sociali,  l'inedita progressiva consapevolezza di appartenere tutti allo stesso mondo, con pari responsabilità e opportunità. (LS)


    La "profezia " della Scuola di Manchester

   Gli esponenti della scuola di Manchester si fecero assertori di un cambiamento radicale per quanto riguarda le scienze antropologiche, proponendo un paradigma che li allontanerà progressivamente dalle vecchie concezioni relative al funzionamento delle società, viste ancora come sistemi omeostatici ed in perenne equilibrio.

   Il tema del cambiamento culturale e del conflitto accomunerà un'intera schiera di giovani antropologi, stimolati dalla situazione storica in cui risiedevano molti paesi africani, vittime, in quegli anni, di una politica coloniale destrutturante e conflittuale.

   Alcuni allievi di Malinowski avevano già puntato il loro interesse verso i problemi scaturiti dal contatto tra culture diverse,denunciando, in alcuni casi, il pericolo che correvano le società tradizionali al cospetto dell'aggressività politico-militare dei paesi europei. Lo stesso Malinowski, dopo un periodo di studio in Africa alla fine degli anni '30, proporrà una sua teoria del cambiamento, tentando di far coesistere il tema del mutamento con quello funzionalista. Rispetto alle piccole tribù isolate che gli antropologi avevano inizialmente scelto come oggetto privilegiato di studio, le società africane,coinvolte in rapidi processi di acculturazione forzata, potevano sicuramente stimolare un tipo di visione dinamica dei fenomeni, proponendo una particolare attenzione verso la dimensione storica dei fatti.
  
   Max Gluckman (1911-1975), antropologo sudafricano, può essere considerato il fondatore della scuola di Manchester. Compì i suoi studi in Rodhesia e nel Sudafrica, dove tentò di analizzare le realtà sociali al fine di rintracciare importanti conferme alle sue teorie. Come Radcliffe Brown, anche Gluckman ricerca, inizialmente, i fattori in grado di garantire coesione ed equilibrio all'interno delle realtà sociali. Il distacco concettuale dal maestro avverrà proprio riguardo il tema dell'organicità delle società; al contrario di Radcliffe Brown, infatti, l'equilibrio non era da rintracciare nell'interdipendenza dei fenomeni sociali, quanto nel loro rapporto conflittuale, aprendo la porta, cosi facendo, all'analisi ed allo studio del mutamento culturale. Per Gluckman il funzionamento di una società dipendeva da due forze opposte, funzionanti all'interno di un sistema in grado di auto-regolarsi, attraverso continui fenomeni di rotture e riaggiustamenti. Ciò che caratterizzava una società erano dunque delle ricorrenti forme di instabilità, intramezzate da altrettanti periodi di equilibrio, scaturiti dal riassestamento delle contraddizioni venutesi a creare.

   L'idea di aggregato funzionante come un organismo vivente, al cui interno i vari fenomeni sociali funzionavano come organi predisposti al funzionamento del tutto, tendeva a lasciare spazio ad una nuova idea relativa ai gruppi umani, grazie all'utilizzo di concetti nuovi per l'antropologia, quali conflitto, tensione, contraddizione, destrutturazione, cambiamento. L'attenzione principale di Gluckman rimase tuttavia ancora rivolta verso i meccanismi in grado di spiegare l'equilibrio e la conservazione di un sistema sociale. Gli stessi livelli di opposizione da lui enunciati (conflitto, lotta,contraddizione, competizione), non facevano che riportare, una volta superati, la situazione al livello iniziale.

   Solamente con il termine "contraddizione", Gluckman intese la possibilità che una tensione interna potesse portare ad un cambiamento radicale della struttura sociale, mentre teorizzò per gli altri dei semplici momenti conflittuali che, una volta assorbiti da specifici meccanismi regolatori, sarebbero stati eliminati per far posto ad una nuova situazione di equilibrio. Tra i principali strumenti sociali utilizzati dai gruppi umani per sedare le tensioni interne, vi era la sfera religiosa e magica. Il rituale, in particolare, svolgeva la funzione di convoglio di energie potenzialmente destrutturanti; attraverso la ritualizzazione delle lotte, per loro natura sottoposte ad un rigido controllo, si finiva per scaricare i propri impeti di ribellione, riconfermando, al termine di quella che potremmo chiamare una "metafora sociale", le regole vigenti. Il potere di un capo, ad esempio, che poteva suscitare sentimenti di invidia da parte di alcuni membri del gruppo, finiva per essere rinsaldato proprio nel momento in cui lo si inseriva all'interno di un rituale, attraverso il suo utilizzo come sistema di convoglio di pericolose energie in grado di minacciare l'ordine esistente.

   Gli allievi di Gluckman, tra i quali ricorderemo qui Victor Turner (1920-1983), diressero la loro attenzione su quello che potremmo definire come il punto principale della scuola di Manchester, ossia quell'insieme di situazioni sociali che potevano creare situazioni tali da portare ad un cambiamento radicale della struttura esistente. Turner, in particolare, studiò i conflitti che caratterizzavano le società, proponendo una visione essenzialmente dinamica dei fatti, ed allontanandosi sempre più dalle concezioni struttural-funzionaliste di Radcliffe Brown. L'interesse di Turner fu quello di decifrare il modo in cui gli individui di un gruppo erano in grado di manipolare gli apparati simbolici e normativi di una società, al fine di perseguire un vantaggio personale.
  
   Il conflitto era da considerarsi endemico, cioè intrinsecamente esistente all'interno di una società, anche se esistevano precisi meccanismi che riuscivano ad utilizzare queste tensioni ai fini dell'unità del gruppo. La principale novità di Turner rispetto al suo maestro, sarà quella di porre in primo piano gli individui in quanto tali, i loro comportamenti, le loro strategie interne, e i modi in cui era possibile manipolare il capitale simbolico di una società, cosi da provocare uno scarto tra norma e comportamento. Soprattutto quest'ultimo punto sarà ripreso da studiosi dediti al tema del cambiamento socio-culturale, tra i quali possiamo ricordare la figura di Edmund Leach (1910-1989) e Fredrik Barth (1928-).

   L’analisi struttural-funzionalista infatti puntava ad individuare le norme e le istituzioni cristallizzate per ricostruire l’assetto strutturale di una data società; Gluckman e i suoi allievi cercavano di individuare la componente dinamica delle relazioni sociali stesse, conseguentemente all’insorgere di principi e valori antagonistici ed oppositivi atti a rimodellare l’intera struttura sociale. In particolare Victor Turner si interessò agli aspetti processuali del divenire analizzando la vita sociale in un villaggio degli Ndembu, una popolazione della Rhodesia del Nord, oggi Zambia. Egli comunque non circoscrisse le sue analisi teoriche alle popolazioni native dei paesi in via di sviluppo, ma analizzò a fondo anche le dinamiche oppositive e processuali delle società complesse occidentali, attuando una comparazione fra scenari culturali diversi.

   Il punto di partenza della sua analisi teorica è il concetto di social drama (dramma sociale).
"Un dramma sociale si manifesta innanzitutto come rottura di una norma, come infrazione di una regola della morale, della legge, del costume o dell’etichetta in qualche circostanza pubblica.

  Questa rottura può essere deliberatamente, addirittura calcolatamente premeditata da una persona o da una fazione che vuole mettere in questione o sfidare l’autorità costituita […] o può emergere da uno sfondo di sentimenti appassionati. Una volta comparsa, può difficilmente essere cancellata. In ogni caso, essa produce una crisi crescente, una frattura o una svolta importante nelle relazioni fra i membri di un campo sociale, in cui la pace apparente si tramuta in aperto conflitto e gli antagonismi latenti si fanno visibili. Si prende partito, si formano fazioni, e a meno che il conflitto non possa essere rapidamente confinato in una zona limitata dell’interazione sociale, la rottura ha la tendenza a espandersi e a diffondersi fino a coincidere con qualche divisione fondamentale nel più vasto insieme delle relazioni sociali rilevanti, cui appartengono le fazioni in conflitto."

   Il dramma sociale ha quindi luogo quando nell’ambito della vita quotidiana di un villaggio si crea una frattura nelle tradizionali norme del vivere oppure quando in una società complessa si genera un punto di svolta rispetto alla consolidata struttura socioculturale e ci si adopera per far affiorare l’ipotetica antistruttura. I drammi sociali rivelano "strati sottocutanei" della struttura sociale e fanno affiorare allo scoperto elementi oppositivi della società stessa, facendo pulsare le vene reticolari che strutturano le relazioni interpersonali di una determinata società, fino a farle scoppiare.

    Secondo Turner, infatti, i drammi sociali hanno la caratteristica di attivare opposizioni all’interno di gruppi, classi sociali, etnie, categorie sociali, ruoli e status cristallizzati, trasformando queste opposizioni in conflitti che, per essere risolti, necessitano una rivisitazione critica di particolari aspetti dell’assetto socioculturale fino ad allora legittimato.
  
    Questa riflessione critica avviene solitamente nell’ambito di fasi di passaggio da una situazione culturale istituzionalizzata a nuove aggregazioni spontanee, che possono originarsi nell’atto di tracciare i solchi del nuovo e del non familiare all’interno del territorio della liminarità socioculturale.

   Il concetto di limen (che significa "soglia", "margine" in latino) è traslato da Victor Turner dal lavoro di Arnold Van Gennep, che nel 1909 pubblicò in Francia il libro Les rites de passage (trad. italiana: I riti di passaggio).

    Per Van Gennep i Riti di passaggio sono quelli che accompagnano il mutamento dello status sociale di un individuo o di un gruppo di individui e riguardano le "fasi critiche" della vita umana. Per esempio, Van Gennep analizzò i rituali d’iniziazione che riguardano i momenti di passaggio da uno status sociale ad un altro (come nel caso dell’entrata nella vita adulta da parte di un giovane di un clan) e che di solito comportano lunghi periodi di isolamento e di allontanamento dell’iniziando dalla vita sociale normativizzata, confinandolo in una zona liminare (per esempio in alcune tribù australiane, melanesiane e africane un ragazzo sottoposto all’iniziazione è costretto a vivere per molto tempo nei boschi lontano dalle normali interazioni sociali a cui è abituato). Dopo la separazione dalla routine della vita quotidiana, in seguito alla rottura di particolari norme legittimate dalla comunità, i novizi attraversano una fase intermedia, di transizione, che Van Gennep chiama appunto "margine" o "limen", una zona di ambiguità, una sorta di limbo socioculturale, in cui si gioca con i simboli culturali e li si ricompone secondo modalità inedite.

   "La liminalità può comportare una complessa sequenza di episodi nello spazio-tempo sacro, e può comportare anche eventi sovversivi e ludici (o giocosi). I fattori culturali vengono isolati, per quanto è possibile fare con simboli plurivoci […] come alberi, immagini, dipinti, figure di danza, ecc., ciascuno dei quali può assumere non uno, ma diversi significati. Poi questi fattori o elementi culturali possono essere ricombinati in molti modi, spesso grotteschi perché disposti secondo combinazioni possibili o immaginarie anziché quelle dettate dall’esperienza: così un travestimento da mostro può unire tratti umani, animali e vegetali in un modo ‘innaturale’, mentre gli stessi tratti possono essere combinati in modo diverso, ma sempre ‘innaturalmente’ in un dipinto o descritti in un racconto. In altri termini nella liminalità la gente ‘gioca’ con gli elementi della sfera familiare e li rende non familiari. La novità nasce da combinazioni senza precedenti di elementi familiari." Nel caso dei riti di iniziazione, nella fase di transizione in cui vive l’iniziando si mettono in gioco una serie di simboli rituali e si cerca di praticare un’ibridazione e uno sconvolgimento degli attributi sociali con cui l’individuo era precedentemente connotato: gli iniziandi sono reputati invisibili, vengono privati del nome e dei vestiti e imbrattati di fango, vengono considerati simultaneamente di sesso maschile e femminile,oppure sia vivi che morti. Nella fase di transizione gli iniziandi sono spinti verso l’invisibilità strutturale, l’anonimato e l’uniformità, al fine di passare ad un nuovo status.

   Il liminale quindi rappresenta un contesto di ibridazione sociale e culturale, zona di confine in cui potenzialmente potrebbero sorgere nuovi modelli, paradigmi, in cui la creatività culturale inscena la sua danza al congiuntivo. Turner sostiene che "l’essenza della liminalità consista nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi e nella ricomposizione libera o ‘ludica’ dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile, per quanto bizzarra." In questo settore culturale libero e sperimentale, possono essere introdotti nuovi elementi socioculturali e nuove regole combinatorie.




Testi di riferimento

L.M.Sanlorenzo, La realtà liminale, Incoming, 2010
S. Allovio, Culture in transito, Franco Angeli, Milano, 2002
R. Schechner, Magnitudini della performance, Roma, Bulzoni, 1999
V.W. Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna, 1993
Arnold van Gennep. I riti di passaggio Torino, Bollati Boringhieri, 2002


sabato 1 gennaio 2011

Veri e falsi leaders. Riflessioni all'inizio del decennio.

La leadership è funzione del bisogno insopprimibile
di varcare il confine per reinventare il mondo



Il leader è colui che piuttosto che a-vocare, in-vocare, re-vocare o pro-vocare, fonda la propria identità sull''azione di con- vocare intorno alla visione che egli stesso ha e-vocato e di cui propone il raggiungimento ad un crescente numero di persone che ne condividono il percorso.

Egli aiuta a superare il confine del già visto, sentito, praticato e apre all'inedito che parla al cuore e alla mente il linguaggio primordiale che spinge la specie a cercare, scoprire, inventare mondi e modi nuovi.

Per tale ragione la leadership è una funzione neutra che può essere applicata al massimo bene o al male assoluto (in tedesco, leader si traduce con fuhrer, espressione usata nella vita quotidiana, ben oltre il terribile ricordo che, per i non tedeschi, essa richiama) .

Si pone dunque il problema di una leadership orientata (value based) a valori positivi che, per essere tali, non possono ispirarsi a null'altro che non sia l'evoluzione dell'environment, inteso come sviluppo sostenibile  dell'ambiente che contiene e mantiene tutti gli esseri viventi..

Nella lettura aziendale e nell'accezione politica del concetto di leadership molti sono stati gli equivoci e le contraddizioni circa un termine che, non avendo traduzione letterale in altre lingue, non può che intendersi come "condurre" o "guidare" e che va sempre integrato con le domande "perchè ?" e "verso dove ?".


Attenzione dunque a chi con superficialità si attribuisce tale funzione e alle definizioni convenzionali che i media amano darne.

All' inizio di un decennio che si annuncia come percorso di lente e difficili scomposizioni/ ricomposizioni della politica, dell'economia e della società italiana, una riflessione su tale tema può essere utile e salutare.

Buon 2011, dunque,  a quanti lavorano ogni giorno, in ogni settore,  per realizzare leadership e per educare ad essa le giovani generazioni che la eserciteranno.