sabato 31 gennaio 2015

Sergio raccoglie l’eredità di Piersanti: quell’ultima intervista



La lapide sul luogo dell'eccidio del 6 gennaio 1980 in via Libertà



“Sicilia: nel buio degli anni ’80”. E’ il testo dell’ultima intervista di Piersanti Mattarella, rilasciata a Giovanni Pepi del Giornale di Sicilia. L’intervista venne trasmessa dal Telegiornale di Sicilia la sera di sabato 5 gennaio 1980. Il testo qui riprodotto apparve sul quotidiano palermitano lo stesso giorno in cui il Presidente della Regione venne assassinato proprio su quel marciapiede di via Libertà dove tra poche ore i palermitani si raduneranno per festeggiare il nuovo Presidente della Repubblica. 

Con l’elezione di Sergio Mattarella, che immediatamente raccolse l’eredità culturale del  politica del fratello, quel tratto di strada, finora onorato ogni anno nel giorno del lutto e nel ricordo del martirio, diventa oggi pietra d’angolo del nuovo orgoglio dei siciliani e  segno di una nuova speranza per l’intero Paese.

Palermo, 6 gennaio
Prevedendo le cose degli anni ‘80 si diceva: arriva il buio, comincia il peggio; parole così frequenti da diventare trite. Ora, in Sicilia, la cronaca dei primi giorni dell’anno dà ragione delle anticipazioni tristi. Il maltempo distrugge le coste, miliardi di danni ed una Regione è costretta a risposte inadeguate. Poi crisi internazionale sempre più acuta, il buco energetico si allarga, l’inflazione cresce, possibilità di nuovi investimenti al Sud sempre minori, disoccupazione sempre maggiore. Tra vuoti politici e duri fatti economici, il peggio è davvero cominciato?


La profonda sintonia con l'Arcivescovo di Palermo Card. Salvatore Pappalardo


L’intervista con Piersanti Mattarella, presidente di una giunta di governo dimissionaria dal successore incerto, non può che cominciare da qui.
«Il peggio è cominciato. Il quadro internazionale è politicamente pesante, le conseguenze economiche sono gravi principalmente per le aree depresse come il Mezzogiorno d’Italia. Ma il peggio va affrontato. I nodi sono grossi. Spero di farcela e presto».

Lo si può affrontare con armi spuntate. A Roma il governo è immobile, in Sicilia la giunta è in crisi. Poi si aggiungono pessimi segnali di volontà politica.
«Quali?».

L’altro giorno su un quotidiano del Nord, proprio Antonio Gava, responsabile per la politica degli enti locali della DC, che è il suo partito, legava la soluzione della crisi siciliana ai tempi del congresso democristiano; facendo i conti: quasi tre mesi ancora di vuoto politico. Non sono pessimi segnali?
«Intanto al congresso DC manca solo un mese. Ma qui è necessaria una considerazione più complessiva. Non c’è dubbio, le armi possono apparire spuntate. I nodi poli tici ci sono e sono grossi, legati a scadenze, che del resto erano prevedibili, che riguardano la DC ma non solo la DC. Mi auguro possano sciogliersi nel minor tempo possibile al di là di ciò che Gava ha detto».

Quando i nodi politici di oggi non c’erano le cose non andavano bene. Andiamo ai dati. Secondo l’ultimo rapporto del Censis, nel ‘79 l’occupazione al Sud è aumentata più che al Nord. In questo processo la Sicilia è rimasta in coda. I suoi posti di lavoro sono aumentati solo dell’uno per cento, rispetto al 12,4 della Puglia e all’1,7 della Campania. Perché?

«Perché ancora scontiamo il prezzo di una marginalità geografica che è anche economica. C’è un processo di espansione della struttura industriale del Nord di cui beneficia chi sta più vicino e non la Sicilia. Qui sono aumentati di poco i posti di lavoro nell’industria, si sono ri-dotti nell’agricoltura, si è avuto un incremento nei servizi e nel turismo. Contemporaneamente è aumentata la domanda di posti di lavoro, dunque il problema della disoccupazione si è aggravato diversamente dai nostri propositi. Da questo punto di vista le incognite dell’80 sono più preoccupanti ».

La marginalità esiste purchè non sia un alibi. Di fatto la Regione ha sprecato occasioni. Un esempio è il metano. È un formidabile incentivo in mano alla Regione. Ma stando così le cose, quando esso arriverà dall’Algeria andrà altrove: nulla è stato fatto per assorbirlo. Si farà qualcosa nei settecento giorni che ci separano dal suo arrivo?
«Qualcosa è stato fatto. La riserva alla Sicilia del trenta per cento della quantità che importeremo dall’Algeria è una conquista della Regione, conseguita non senza fatica attraverso 1’EMS. Adesso bisogna programmarne il consumo. Non solo da parte degli enti pubblici, ma anche e soprattutto dalle imprese private. Qui bisognerà agire in due direzioni: favorire il consumo da parte delle industrie esistenti, sia pubbliche che private, le quali dovranno modificare i loro impianti; fare in modo che il metano, un incentivo reale in tempi di crisi energetica, eserciti un effetto attrattivo di nuovi insediamenti industriali. Si dovrà operare immediatamente, certo. La questione riguarda il governo ma non solo il governo, è necessario uno sforzo di tutto il mondo produttivo».

Andiamo al contenzioso tra Regione e Stato, altro nodo dell’80. Per la Sicilia diventa pure difficile difendere le briciole. Le risposte a punti di crisi sono da Roma meno generose di quanto non lo siano per altre regioni del Sud. Alla fine dello scorso anno, governo ed Assemblea concordarono una iniziativa per costituire un fronte comune con i parlamentari eletti nell’isola. Non se ne è saputo più nulla. Le cose sono migliorate?

«Non si tratta di questo. Nel ‘79 ci siamo sforzati di far conoscere più direttamente la realtà siciliana ai maggiori protagonisti della vita pubblica nazionale. Le visite del capo dello Stato Pertini, del presidente del Consiglio Cossiga e del massimo rappresentante della Cee Jenkins hanno segnato risultati utili per le prospettive di medio periodo. Sui problemi immediati c’è un contenzioso con lo Stato. C’è e resta. Devo dire che dopo l’incontro con i parlamentari di cui lei parla qualcosa è cambiato. Da parte governativa, ma anche politica e sindacale, si è avuta diversa attenzione, per esempio, per il cantiere navale di Palermo. Sul Belice ci sarà l’incontro con il governo centrale fra qualche giorno. Passi in avanti si sono avuti pure per la definizione delle norme finanziarie con il conseguente aumento delle entrate della Regione. Qualcosa si è mosso, pur se il clima generale resta tutt’altro che confortante».

Il 79 è stato l’anno in cui della mafia, dopo un crescendo di violenza, si è parlato dentro il palazzo. È riconosciuto che il fenomeno si alimenta di un malessere sociale per rispondere al quale sono necessari fatti politici, non solo misure di polizia. Ma quali fatti politici in tal senso la Regione ha prodotto, quali potrà produrre?

«Fatti politici ci sono stati. Cito soltanto i due dibattiti in Assemblea regionale conclusi con voto unanime Molte indicazioni concrete per far fronte al fenomeno sono state accolte dai recenti provvedimenti del Consiglio dei ministri in materia di ordine pubblico».

Siamo sempre sul piano delle misure di polizia. I fatti politici riguardano il risanamento del costume pubblico. Il cardinale Pappalardo nell’ultima lettera pastorale ha detto che la mafia è pure quella sensazione di sicurezza prodotta dall’esser «protetti da un amico o da un gruppo di amici che contano». Questi gruppi si insediano pure dentro la classe dirigente.


«Il richiamo del cardinale è appropriato. Il problema esiste perchè nella società a diversi livelli, nella classe dirigente non solo politica, ma pure economica e finanziaria, si affermano comportamenti individuali e collettivi che favoriscono la mafia. Bisogna intervenire per eliminare quanto a livello pubblico, attraverso intermediazioni e parassitismi, ha fatto e fa proliferare la mafia. Pure è necessario risvegliare doveri individuali e comportamenti dei singoli che finiscono con il consentire il formarsi di un’area dove il fenomeno ha potuto, dico storicamente, allignare e prosperare».


Sergio Mattarella XII Presidente della Repubblica



Articolo pubblicato su Sicilia Informazioni il 30 gennaio 2015


martedì 27 gennaio 2015

Le leggi razziali a Palermo: in memoria di un colpevole silenzio



Visita di Mussolini a Palermo nel 1937


Il 18 ottobre del 1938 il Gran consiglio del fascismo varò le leggi le leggi razziali in conseguenza delle quali  anche cinque docenti dell’Università di Palermo, colpevoli solo di essere ebrei, vennero espulsi dall' Ateneo, in osservanza dei due decreti legge del ministro Giuseppe Bottai approvati il 2 settembre che sancivano l' espulsione da ogni scuola, dall' asilo fino all' università, di studenti e insegnanti ebrei italiani e l' espatrio di tutti gli ebrei stranieri.

Dopo ormai ottant'anni è doveroso farne i nomi e mantenerne vivo il ricordo: Emilio Segré, Camillo Artom, Maurizio Ascoli, Mario Fubini e Alberto Dina.
Emilio Segré, ordinario di Fisica sperimentale, fu scienziato di prim' ordine. Collaborò negli Stati Uniti con Enrico Fermi nella realizzazione del primo reattore nucleare, gli fu assegnato il Premio Nobel per la fisica nel  1959.
Maurizio Ascoli raggiunse la notorietà per avere scoperto una cura per la tubercolosi basata sulle iniezioni endovenose di adrenalina; così come tanti antifascisti, continuò ad esercitare, in una sorta di clandestinità presso la clinica Noto.
Mario Fubini, fu professore ordinario di Letteratura italiana e, pur essendo stato chiamato a  commemorare D' Annunzio, a nulla gli valsero i meriti scientifici e venne estromesso.
Alberto Dina, ordinario di Ingegneria elettronica e Camillo Artom, fisiologo, furono studiosi di valore, ma, in quanto ebrei, seguirono il destino degli altri tre.


Il Fascismo e l'Università negli anni delle leggi razziali


Principale teorico a Palermo della legittimità delle norme razziali fu il giurista Giuseppe Maggiore,  Rettore dell' Università di Palermo nel biennio 1938-1939, ultimo presidente nazionale dell' Istituto Nazionale di Cultura Fascista. Nel 1938 il suo nome comparve tra i  docenti universitari che aderirono al Manifesto della razza.
In un  articolo sul periodico "La difesa della razza" diretto da Telesio Interlandi, siciliano di Chiaramonti Gulfi,  Maggiore ebbe a scrivere «gli ebrei sono razza inferiore sia dal punto di vista biologico, sia da quelli filosofico e sociale. A profonde diversità anatomiche e fisiologiche tra i vari rami della famiglia umana non possono non corrispondere profonde difformità mentali e morali~ C' è un altro concetto dell' uomo, oltre il nostro, quello foggiato dalla cultura ebraica, che si è compiaciuta di impantanarsi nei bassifondi dell' umanità».

Pietro Nastasi, per molti anni docente di Storia della Matematica all'Università di Palermo. ha scritto sull' argomento il libro "Scienza e razza nell' Italia fascista". Ne riporto un’ illuminante affermazione:
«E’ vero che la maggioranza della popolazione non aderì alla campagna razziale - dice - e non collaborò all' applicazione capillare delle leggi. Ma è altrettanto vero che il mondo intellettuale non manifestò alcuna seria opposizione: al contrario si mostrò ossequiente e qualche volta zelante esecutore».

Tra di essi Biagio Pace, Santi Romano, giurista insigne, Alfredo Cucco e numerosi giornalisti dei quattro quotidiani che all' epoca si pubblicano nell' Isola: "Giornale di Sicilia" e "L' Ora" a Palermo, "Sicilia del popolo" a Catania e "La Gazzetta" a Messina. Mario Genco, autore di "Repulisti ebraico" pubblicato dall' Istituto Gramsci, conta che dal primo gennaio 1938 al 10 giugno 1940 ben 750 articoli contro gli ebrei furono pubblicati dal solo Giornale di Sicilia . «Qualcuno potrebbe obiettare - sostiene Genco - che non furono altro che parole che volano. Sì, volarono, ma dritto nelle coscienze e ci fecero il nido. L' invisibile nido dove covano a lungo gli stereotipi, le frasi fatte, le bugie che il tempo, nemico della memoria, trasforma in risapute e non contestate "verità"».

L’eterno gattopardismo siciliano fece sì che nessuno di essi venisse chiamato a rispondere.
 «Nel dopoguerra - secondo Piero Violante -  gli ebrei scacciati stenteranno a ritornare in cattedra ma non i fascisti epurati dopo lo sbarco alleato. Maggiore, ad esempio, con l' aiuto del rettore Baviera ritornò ad insegnare e la facoltà di Giurisprudenza gli intitolò un' aula». Ancora oggi, pensionati, aule e biblioteche sono dedicate a questi personaggi che agitarono la bandiera del razzismo. A Maurizio Ascoli fu dedicato il Policlinico Universitario. E’ legittimo oggi immaginare un gesto di riparazione e intestare quei luoghi agli altri quattro professori che furono cacciati con ignominia ?
Intanto,  per dare l’idea del clima di quegli anni ecco di seguito il Manifesto degli intellettuali razzisti che, sottoscritto il 15 luglio, fu pubblicato dal Giornale d’Italia  il 25 luglio (amara ironia della Storia)  del 1938 e intese dare basi scientifiche al più grande crimine dell’Umanità. 

In anni in cui anche il nostro tempo sembra correre sull’orlo dell’abisso del fondamentalismo e dell’intolleranza, possano quelle parole essere un monito per tutti noi e il loro ricordo l’antidoto più potente ai razzismi che nuovamente percorrono l’Europa.



Manifesto della razza

1)Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano ad ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti

2) Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente

3) Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze

4) La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti pre ariane. L'origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell'Europa

5) E’ una leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici. Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l'Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d'Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l'Italia da almeno un millennio

6) Esiste ormai una pura "razza italiana". Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico-linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana

7) E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo ariano-nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l'italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità

8) E’ necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall'altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili

9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempe rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani

10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo. L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono ad un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.

I dieci primi firmatari

On. Sabato VISCO - Direttore dell'Istituto di Fisiologia Generale dell'Università di Roma e Direttore dell'Istituto Nazionale di Biologia presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche; Dott. Lino BUSINCO - Assistente di Patologia Generale all'Università di Roma ; Prof. Lidio CIPRIANI Incaricato di Antropologia all'Università di Firenze; Prof. Arturo DONAGGIO - Direttore della Clinica Neuropsichiatrica dell'Università di Bologna e Presidente della Società Italiana di Psichiatria; Dott. Leone FRANZI - Assistente nella Clinica Pediatrica all'Università di Milano; Prof. Guido LANDRA - Assistente di Antropologia all'Università di Roma; Sen. Luigi PENDE -Direttore dell'Istituto di Patologia Speciale Medica dell'Università di Roma; Dott. Marcello RICCI - Assistente di Zoologia all'Università di Roma; Prof. Franco SAVORGNAN - Ordinario di Demografia all'Università di Roma e Presidente dell'Istituto Centrale di Statistica; Prof. Edoardo ZAVATTARI - Direttore dell'Istituto di Zoologia dell'Università di Roma.


Il manifesto degli scienziati razzisti fu poi sottoscritto da 180 scienziati del regime, cui si aggiunsero 140 autorevoli intellettuali, giornalisti, politici e docenti  universitari. 



venerdì 9 gennaio 2015

La libbra di carne





Lo avevano messo nel conto ! 

Abbiamo avuto la libbra di carne. 


Se le condizioni lo avessero consentito, sarebbe stato molto meglio un grande processo pubblico, con tutte le garanzie previste e la massima pena detentiva, dimostrando che noi non siamo come loro.


Adesso la preoccupazione è che agli occhi di quanti ne intendono imitare le gesta essi diventino i primi "martiri" del califfato in Europa. 


Cento anni dopo, siamo di nuovo in guerra !

Rushdie, Fallaci, Van Gogh: provocatori o nemici dell’omertà?


        
   L’eccidio dei giornalisti di Charlie Hebdo ci riporta indietro nei recessi più oscuri della nostra storia, quando uccidere “un infedele” in nome di un dio era considerato un precetto, se non la condizione per la propria salvezza eterna.
       In queste prime ore dell’anno appena iniziato si affastellano analisi di ogni genere che si estendono dalla condanna “senza se e senza ma” allasottile giustificazione, a mio avviso molto impropria, di cui il Financial Times si è reso responsabile.
    Secondo il quotidiano della City, si sarebbe peccato di “stupidità editoriale” attaccando l’Islam. “Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione” – si legge ancora – “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocano i musulmani”.
    Il giovane Charlie Winter entrerà probabilmente nel Guinness delle gaffe giornalistiche, ma non vi è dubbio che vi siano molti nel mondo che la pensano allo stesso modo. Probabilmente sono gli stessi che ritengono che la responsabilità di molti stupri sia da far risalire all’abbigliamento delle vittime o che commiserano quanti, intervenuti occasionalmente in fatti criminosi che stavano accadendo, siano stati a loro volta colpiti per non aver voluto il buon senso di “farsi i fatti propri”.
     Noi siciliani conosciamo bene questo sentimento perverso e con esso lottiamo da anni nel tentativo di liberarcene, si chiama omertà. Essa può avere origini diverse: la paura di essere puniti da una potente entità vendicativa, l’ansia di essere coinvolti in risvolti giudiziari, il timore di conseguenze per la sicurezza dei propri cari.
   Sull’omertà si sono costruiti i più grandi crimini dell’Umanità. Omertosi erano moltissimi tedeschi che, già a partire dai primi anni del nazismo, evitavano di chiedersi perché i propri vicini di casa ebrei fossero improvvisamente scomparsi, omertosi erano i francesi di Vichy che si voltavano dall’altra parte mentre si deportavano palesemente i bambini ad Auschwitz, omertosi sono stati sino alle soglie degli anni ‘60 gli americani degli stati del sud che avevano sotto gli occhi la discriminazione razziale ma festeggiavano comunque il 4 di luglio e la Festa del Ringraziamento, omertosi sono i tanti politici che tacciono la verità e privilegiano l’appartenenza “feudale” nei confronti del proprio leader per continuare a tutelare i propri privilegi e garantirsi un futuro.
   Omertosi, infine, sono coloro che si nascondono dietro il politically correct e il conformismo becero per paura di dire ciò che in realtà pensano, temendo di essere socialmente esclusi o culturalmente emarginati. 
 I nemici dell’omertà sono la denuncia e la satira attraverso il cui esercizio singoli o comunità si sentono interrogati dai fatti che accadono e se ne fanno pubblicamente carico, pur consapevoli dei rischi che ciò può comportare. E non è necessario vivere in una grande metropoli o disporre di un grande giornale per esercitare questo diritto di dire di no anche attraverso l’ironia più graffiante. Ce l’ha insegnato Peppino Impastato e ogni giorno cerchiamo di non dimenticarlo.
     Il peccato della denuncia non si perdona facilmente e, prima o poi, si trova il modo di farlo scontare al reo. Ne hanno ancora sulla propria pelle il marchio personalità della cultura come Salman Rushdie, ancora oggi perseguitato da una fatwa che non è mai stata revocata e che autorizza ogni musulmano ad ucciderlo, come Oriana Fallaci fatta a brandelli per decenni per aver avvertito del rischio che incombeva sull’ Occidente distratto dal dio denaro, come Theo Van Gogh, il regista olandese trucidato nel 2004 per aver diretto il film Sottomissione da cui ora Michel Houellebecq 
ha tratto il titolo del suo nuovo bestseller di fantapolitica che immagina un governo legittimo e democratico della Francia diventata nel frattempo a maggioranza culturale musulmana, nel 2022.
    Mentre in queste ore si discetta, esattamente come dopo l’attentato alle Torri Gemelle, sulle mille possibili origini e conseguenze della strage di Parigi, non escludendo ancora una volta l’ipotesi del solito complotto tanto caro a chi ama in questi caso “i distinguo”, un dato incontrovertibile è sotto gli occhi di tutti: l’Islam oggi riempie in molti giovani europei – e non solo tra i figli o nipoti di immigrati – il profondo disorientamento di cui scriveva profeticamente Ulrich Beck e il vuoto di valori che il ritardo nella costruzione dell’identità europea ha colpevolmente generato, esibendo piuttosto tutte le fragilità tipiche delle società avanzate, proprio a motivo del fatto che esse si fondano sui principi della libertà di pensiero, dei diritti civili e della ragione.
   Un universo etico ed estetico che qualcuno oggi torna a chiamare “pensiero debole”, auspicandone pericolosamente altri, ritenuti evidentemente “più forti”.
   Come è sempre accaduto nella storia dell’Umanità, le civiltà incapaci di rinnovarsi fanno prima o poi i conti con chi ne accelera la fine. E’stato così per l’impero persiano, per quello romano, per quello ottomano, per le monarchie assolute, per la crisi dei valori borghesi alla fine del XIX secolo. La differenza però sta nel fatto che in tali passaggi epocali l’ago della bussola era comunque rivolto verso un futuro – mai chiaro, ma via via sempre più evidente – e mai distorto, a forza, verso il passato.
    Comunque le nuove sintesi culturali, pur attraverso bagni di sangue, hanno spostato in avanti le mete da raggiungere, dando vita il più delle volte, a mondi migliori di quelli precedenti. L’elemento inedito con cui oggi ci troviamo drammaticamente a confrontarci risiede invece nella negazione esplicita di larga parte dei valori che hanno traghettato il mondo verso una pur discussa modernità.
     A poco vale la considerazione che la maggior parte dei musulmani presenti in Europa come in molte altre regioni del mondo, stiano tentando faticose mediazioni tra lo spirito dei fondamenti coranici e la lettera dei comportamenti civili e democratici; sappiamo bene come poche migliaia di fondamentalisti fanatici siano perfettamente in grado di annullarne gli sforzi coraggiosi e, spesso, conflittuali, lavorando nel sottobosco dell’insicurezza sociale, della povertà, dell’emarginazione. E ciò soprattutto quando dall’altra parte non si oppongono valori realmente alternativi e in grado di prospettare intensamente un diverso e migliore mondo possibile.
    Nel centenario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, non potevamo imbatterci in una più dilaniante contraddizione: essere consapevoli che il mondo debba cambiare e non avere il coraggio di farlo, archiviando tutto ciò che ancora stancamente ci portiamo dietro della società, dell’economia e delle divisioni ideologiche del secolo che ancora fatica a chiudersi.

      E’ per la nostra incapacità di progettare il futuro in Europa che il passato arcaico si ripropone con l’aspetto feroce del fanatismo religioso, dell’intolleranza e della violenza, a cui – almeno fino a quando la ragione riuscirà a prevalere sull’istinto della vendetta- ci è impedito di rispondere allo stesso modo.
    Faremmo il gioco di chi ha pianificato questo nuovo orrore e precipiteremmo anche noi nella barbarie,dimenticando nel volgere di pochi anni chi siamo e da dove veniamo.



Articolo pubblicato da Sicilia Informazioni.com il 9 gennaio 2014



lunedì 5 gennaio 2015

Ulrich Beck e la società del rischio: un'utile bussola per i giovani siciliani



  Nell’ anno accademico 2010/2011 vissi l’esperienza di reggere la cattedra di psicologia della formazione, disciplina del corso di laurea magistrale in psicologia sociale, del lavoro e delle organizzazioni. Stimolato dall’opportunità di presentare agli studenti dell’Ateneo palermitano un panorama originale delle nuove istanze poste dalla modernità in ogni campo, proposi loro lo studio comparato di quattro grandi interpreti del pensiero sociologico provenienti da formazioni e nazionalità diverse.
  Scelsi Sygmunt Bauman, Anthony Giddens, Luciano Gallino e Ulrich Beck i cui assunti erano stati posti a confronto nel testo “La società smarrita” curato da Ruggero D’Alessandro ed edito da Franco Angeli, Milano, nel 2010 e diedi al corso il titolo “Aliena Litora”.
Ulrich  Beck (Stolp, 15 maggio 1944 – Monaco, 1 gennaio 2015)
  La recente e prematura scomparsa di Beck mi porta oggi a sintetizzarne il messaggio, ritenendolo particolarmente formativo per i giovani siciliani che stanno pagando un prezzo molto elevato all’infinita transizione dal mondo delle certezze a quello della cosiddetta società liquida.
  Teorico del concetto di società del rischio (il cui testo dal titolo omonimo fu pubblicato in Italia nel 2000), Beck ha sostenuto che nelle società occidentali costruire riflessivamente una propria identità individuale è diventato un imperativo categorico. Lo stato nazionale ha nel corso del tempo abdicato alla sua funzione di welfare state, lasciando all’individuo l’obbligo e la responsabilità di decidere cosa fare della propria vita. L’individuo si è illuso che la più grande conquista che potesse raggiungere, quella per la libertà, fosse la migliore di tutte le condizioni possibili. Tuttavia non ha fatto i conti con la fatica, il crescente senso di smarrimento, le paure e le angosce che accompagnano il percorso, tanto che all’orizzonte appaiono inquietanti nostalgie di epoche ormai tramontate.
   Le grandi certezze della vita e delle morte (credenza sull’aldilà, la famiglia, le ideologie politiche) sono via via divenute macerie sulle quali si è innalzato il nuovo individualismo, la cui biografia diviene una narrazione complessa all’interno della quale le relazioni sociali sono sempre rapporti  legati alla contingenza e agli obiettivi – sia professionali che sentimentali – che il singolo si prefissa. “La socializzazione – scriveva il sociologo tedesco – ormai è ancora possibile solo come auto-socializzazione. L’individualismo, che procede dall’interno verso l’esterno ha soppiantato l’autorità paterna e quella materna, o è subentrato al posto dei governanti, degli insegnanti, dei poliziotti e dei politici”.
  Nel titolo del saggio pubblicato in Italia nel 2008 “Costruire la propria vita – Quanto costa la realizzazione di sé nella società del rischio” Ulrich Beck ha individuato un passaggio ineludibile nella civiltà occidentale. Gli individui agiscono, lottano, si sforzano per fare della propria esistenza un’unica e singolare avventura, condizionata solo dalle proprie decisioni. Un’aspirazione che, se sancisce l’affrancamento dal passato, dalle società immobili, dal destino già tracciato, dalla tradizione, presuppone un futuro amico e prevedibile, futuro che la società del rischio non è più in grado di garantire. Su questo tema ci invita a riflettere Beck che mostra come, nel mondo globale, su ogni scelta, dallo studio al lavoro o, al matrimonio, gravi il timore dell’imprevedibilità e dell’insuccesso e l’inedita fragilità che deriva. Egli scrive di globalizzazione e conseguenze sull’individuo, su nuove povertà e ricchezze, su matrimoni e relazioni sentimentali, su emancipazione femminile e giovani, su educazione e formazione, su valori morali e morte.
  Colta nella propria essenza, l’opera di Ulrich Beck può rappresentare un vademecum del nuovo essere umano nel quale prevale la difficoltà esistenziale, ma permane l’unica onerosa speranza che nonostante ciò “il confronto quotidiano con l’insicurezza vada inteso come un’opportunità”. Un messaggio utile per società che, come quella siciliana, inseguono ancora nostalgicamente il mito di un’età dell’oro all’insegna del “tutto garantito” ritardando così la consapevolezza che la nuova bussola in grado di orientare verso un autentico senso della vita è già oggi funzione esclusiva della capacità, tutta personale, di contare prima di tutto sulla fiducia in se stessi e sulla tenacia necessaria ad aprire nuovi sentieri nella giungla intricata del futuro.

Palermo, Albergo delle Povere,  Facoltà di Scienze della Formazione, A.A. 2010/2011

Articolo pubblicato su Sicilia Informazioni.com il 5 gennaio 2015

venerdì 2 gennaio 2015

Dodecalogo per alimentare nel 2015 la fiducia dei siciliani in se stessi





Appare unanime il desiderio che la cifra dell’anno che è appena iniziata sia lo sforzo di riappropriarsi  della fiducia in noi stessi e di una visione ottimistica del futuro, pur contro ogni evidenza, convinti come siamo di quanto sia stato avvilente e deleterio contemplare in questi anni le macerie di un passato che ancora oggi  ci crollano addosso.

Con il limite sacrosanto dello spazio giornalistico provo a lanciare dodici proponimenti (uno per ciascun mese del’anno) che in ogni settore della vita pubblica e privata potrebbero aiutare a riconquistare una parte di fiducia in ciò che come siciliani siamo e potremmo essere,  se solo ci liberassimo da alcuni pregiudizi, vecchi e nuovi che come catene arrugginite da troppo tempo ci portiamo dietro.

Il dodecalogo proposto a ciascun siciliano e massimamente a coloro che per professione o per vocazione orientano la pubblica opinione, non pretende certo di essere esaustivo ma intende aprire un dibattito più generale non tanto sulle infinite mille questioni specifiche quanto sullo spirito con cui affrontarle.
In sostanza, si tratta non certo di ignorare o nascondere  i problemi e le tante emergenze,  quanto piuttosto di individuare modalità nuove con cui leggerne e de-scriverne i contorni, immaginando le possibili soluzioni avendo guardato ad essi con lenti diversamente colorate.

L’esercizio quotidiano di un pensiero divergente ed eccentrico può rivelarci , soprattutto nelle situazioni di maggiore difficoltà, prospettive nuove e vie d’uscita esistenti ma non visibili per troppo tempo a motivo della monocromia che ne circonda la descrizione e l’analisi.

Dietrich Bonhoeffer,  il teologo luterano tedesco protagonista della resistenza al nazismo, nel 1944 così scriveva dal campo di concentramento di Flossemburg: "l'essenza dell'ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano..."

Ecco di seguito la mia proposta e l’invito ad accrescerne l’ambito di applicazione.

1) Sforzarsi di non giudicare tutto ciò che accade in Sicilia sotto la lente deformante dell'antinomia mafia-antimafia.

2) Ridimensionare attraverso il silenzio  il populismo/protagonismo che connota alcuni tra  i principali governanti siciliani

3) Puntare in ogni settore sulle giovani generazioni, riservando agli “anziani”  il ruolo di consiglieri, senza l’obbligo di ascoltarli o il timore reverenziale di farne a meno.

4) Incoraggiare le formazioni politiche inclusive, puntando su ciò che unisce piuttosto che su ciò che divide.

5) Privilegiare la comunicazione delle cose realizzate piuttosto che enfatizzare gli annunci di quelle da realizzare.

6) Concentrare le azioni di soggetti che hanno finalità comuni,  limitando la crescita di movimenti/associazioni/gruppi "fotocopia" e focalizzando l’analisi delle nostre risorse naturali, culturali e d umane con pragmatismo e razionalità, fuori dagli schemi ideologici che hanno intrappolato spesso il nostro futuro.

7) Contribuire a rafforzare nella Magistratura siciliana la terzietà necessaria a sottrarla al metro di giudizio applicato in altri settori della vita civile in cui dividersi è invece legittimo e necessario.

8) interrogarsi con largo anticipo sul ricambio in ogni settore della classe dirigente siciliana, con rispetto e gratitudine, se dovuti, verso quanti attualmente ne fanno o ne hanno fatto parte

9) investire risorse (non necessariamente economiche)  ed energie intellettuali e  culturali sulla formazione di nuove soggettualità da selezionare con criteri innovativi lontani da ogni appartenenza e farle crescere in competenza, libertà di pensiero e carattere.

10) Utilizzare i social network come strumento e non come fine per "convocare" ogni forma d'impegno, farne circolare le energie e favorirne l'incontro e il confronto reale e non solo virtuale.

11) Non assimilare più la mobilità internazionale dei giovani nell’unica categoria della fuga dei cervelli, evitando di piangersi addosso se essi decidono di vivere dove vi sono, ad oggi,  maggiori opportunità di sviluppo e migliori condizioni di vita.

12) Vivere la nostra sicilianità senza più alcun sentimento di specialità, sottraendoci all' autocommiserazione e alla pericolosa attribuzione ad altri attori dei nostri passati – e presenti -  fallimenti.


L’indimenticato Tonino Guerra, maestro del cinema italiano e poeta dell’ottimismo, ci ha lasciato un grande insegnamento, semplice e suadente come è stata la sua lunga esistenza:
“Contento, proprio contento sono stato molte volte nella vita ma più di tutte quando mi hanno liberato in Germania che mi sono messo a guardare una farfalla senza la voglia di mangiarla.”


Articolo pubblicato su Sicilia Informazioni. com il 2 gennaio 2015


giovedì 1 gennaio 2015

Articoli pubblicati su Sicilia informazioni.com dall' 1 gennaio 2015

2015

Settembre
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Agosto
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Febbraio
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Gennaio
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Waterloo 1815: la battaglia che cambiò l’Europa


  La grande pianura che circonda la cittadina belga di Waterloo si estende a perdita d’occhio sino all’ orizzonte. Al centro, visibile da molti chilometri di distanza , dall’alto di una collina artificiale svetta la statua di un leone con una zampa appoggiata sul globo
  Il 1815 è una delle date che, tra le centinaia apprese a scuola, rimane nella nostra memoria e il nome della località, fino ad allora sconosciuta ai più,  è entrata nel lessico comune come sinonimo di sconfitta. A poco serve ricordare che nello stesso anno si svolse il Trattato di Vienna e che da quella data si chiuse l’età moderna e iniziò la cosiddetta età “contemporanea”, conclusasi convenzionalmente con la caduta del muro di Berlino. Oggi sappiamo che quella sconfitta non fu sufficiente ad arrestare il cambiamento che la Rivoluzione Francese aveva rappresentato nel mondo occidentale.
   Ciò che probabilmente colpisce la memoria dei più fu la portata epocale di una battaglia – descritta da Victor Hugo in uno dei più indimenticabili capitoli de I Miserabili – in cui si scontrarono due concezione della stato, della società, del potere. Da una parte l’imperialismo “borghese”, vagamente universalistico ma certamente intriso dello spirito rivoluzionario che attraverso le armate napoleoniche aveva contagiato il mondo occidentale e non solo e, dall’altro, l’assolutismo delle monarchie dinastiche consolidatosi in oltre cinque secoli di lotta per la supremazia europea. 
  Eppure, dall’assetto geo politico creato da quella vittoria e che sarebbe dovuto durare per secoli, trassero origine i Risorgimenti e, nel volgere di un secolo, il crollo di quelle stesse monarchie che avrebbero trovato nell’ apocalittico epilogo della prima guerra mondiale il proprio sepolcro
  Napoleone sconfitto ebbe la così la propria rivincita e i valori della Rivoluzione francese diventarono patrimonio di noi tutti, premessa per tutte le costituzioni nazionali e potente antidoto per sconfiggere i fascismi del XX secolo.
   Sulla soglia dei duecento anni di distanza l’Europa sembra riproporre uno scenario simile , le stesse ansie, le medesime paure. I Paesi che confidano nella natura culturale e sociale dell’Unione, richiamandosi ai padri fondatori e allo spirito dei primi trattati si dovranno continuare a confrontare con quanti la percepiscono come una megastruttura economica in grado di competere con le altre economie mondiali, anche a costo di pagare altissimi prezzi sul piano della dignità della vita di milioni di persone e della desertificazione delle aree storicamente più deboli dei paesi mediterranei.
   Uno scontro fortissimo, pur nascosto dalla formale cortesia ostentata negli incontri ufficiali, ha riproposto antiche differenze culturali e persino opposte declinazioni della cristianità. Non a caso coincide con la debolezza dei Paesi tradizionalmente cattolici e con l’intransigenza di quelli più calvinisti. Una differenza che nell’era della laicità sembrerebbe anacronistica e che, invece, muove sentimenti, scelte, modalità di relazione, criteri di giudizio.
   All’interno e a motivo di questo conflitto trovano ampio spazio e consenso aggregazioni politiche destabilizzanti che invocano scelte antistoriche, esaltano gli egoismi localistici, utilizzano la pur reale minaccia del fondamentalismo islamico come strumento di propaganda per pretendere che la storia della civiltà europea compia passi che la porterebbero indietro di secoli e che, mentre la modernità scorre altrove, la rinchiuderebbe in una sorta di Fortezza Europa, sino all’inevitabile estinzione, come sempre è accaduto a popoli ed individui che si sono nutriti del proprio passato piuttosto che alimentare il proprio futuro.
   L’unica possibilità per impedire che cali sul “primo mondo” l’oscurità della barbarie figlia della paura, è rintracciabile nella responsabilità dei maggiori Paesi europei di comprendere che non può esserci alcuno sviluppo economico separato dalla fiducia nel futuro e dalla speranza in una possibile, umana, “felicità”.
La lezione di Waterloo sembra insegnarci che quando un mondo è al tramonto non basta vincere una seppur decisiva battaglia per tenere lontano il cambiamento che, comunque, si fa strada nella mente e nel cuore degli individui e dei popoli, sino al proprio inevitabile compimento che, come accadde allora, solo pochi anni dopo fecero apparire arroganti le sprezzanti parole che il Principe di Metternich aveva destinato all’Italia.
  Solo la lezione della Storia potrà impedire che nel turbinio degli anni che ci aspettano qualcuno possa un giorno riferirsi anche all’Europa come “una mera espressione geografica”. Non possiamo permetterlo per rispetto ai nostri padri. Non lo permetteremo per dovere verso i nostri figli. 
   Buon anno Europa !

Pubblicato su Sicilia Informazioni.com l' 1 gennaio 2015