domenica 10 maggio 2020

La cravatta di Berlino






La cravatta di Berlino
Un viaggio di formazione con Piero Trupia

di Luigi Sanlorenzo


“Io non so quanto possa valere un regno,
 ma so di avere ottenuto una felicità
che non merito e che non vorrei cambiare
 con nulla al mondo.”

Wolfgang Goethe, Wilhelm Meister

             
   Sulla mia copia di Cento talleri di verità   (Mediascape Editore, 2005) Piero Trupia scrisse questa dedica: “A Loris Sanlorenzo, compagno di viaggio alla scoperta di eventi”. Oggi, trovandomi a ricordare il maestro saggio e sapiente che egli fu, mi sento di sostenere che in quella frase risiede la sintesi del senso che dava alla propria vita, al rapporto con le singole persone, con i luoghi e con le emozioni che avevano contribuito a farne un pensatore finissimo, un formatore eccentrico e potente, uno scopritore di talenti e di vocazioni.

   Quella dedica non rimane solo sulle pagine del libro, a futura memoria. Essa è per me epigrafe di un vero viaggio di formazione che, nato da una semplice battuta durante uno dei tanti consigli direttivi dell’Associazione Italiana Formatori a Milano, prese corpo in pochi giorni e ci condusse a Berlino per vivere uno dei viaggi/evento che, come pochi, mi ha segnato.

   Con Piero eravamo amici dal 2000 e ci eravamo riconosciuti in una dimensione di “destini incrociati”. Mi accolse nella sede storica di corso Magenta, poco distante dal Cenacolo Vinciano in Santa Maria delle Grazie, giovane ma agguerrito ed eterodosso neo presidente di AIF Sicilia e fu per me, insieme al compianto Franco Angeli, un nume tutelare, garantendomi sempre il proprio sostegno e frenando con consigli preziosi i miei furori iconoclasti.

   La comune origine palermitana, il sottile ed ironico piacere di poter praticare un codice esclusivo fatto di una prossemica potentemente espressiva e di suoni gutturali e aspri, di espressioni idiomatiche contenenti millenni di storia e secoli di dominazioni provenienti da più parti del mondo e fuse in un’unica cultura avvolta dal mistero e dal profumo di zagara, ci univano; la passione per il viaggio e per l’incontro con pensieri che, nati “alla fine del mondo” emendavano la nostra razionalità occidentale, ripulendoci da ogni cartesiana certezza, erano una trama comune, solida e rassicurante.

   Piero aveva trascorso alcuni in anni in Iran, parlava correntemente un farsi musicale e misterioso ed era laicamente affascinato dal misticismo medio orientale e dalla bellezza dell’arte islamica, resa potente dalla forza del segno grafico che, a suo avviso, apriva la mente più delle arti figurative a cui siamo abituati. Nulla c’era in lui di barocco o ridondante, molto di irriverente, tutto dell’ essenziale e del frugale. E’ qui si rivelava un’ulteriore affinità, derivante dalla formazione scout ricevuta in epoche diverse ma che, ugualmente, ci avvicinava, in una visione della vita animata dalla medesima “spiritualità della strada” e dal culto di un ottimismo fervido e operoso.

   Da queste prime righe, chi non lo ha conosciuto potrebbe immaginarlo come un intellettuale eccentrico o un accademico con la testa tra le nuvole. Piero, invece, era arrivato a Roma con in una tasca la laurea in scienze politiche e nel cuore la passione per la matematica che aveva studiato prima di cambiare facoltà universitaria. Era stato assunto nel cuore del pragmatismo più radicale, la sede nazionale di Confindustria in viale dell’Astronomia, all’ EUR, al tempo di Guido Carli, che non amava e di Vittorio Merloni, che apprezzava e con cui collaborò dopo il pensionamento, studiando il distretto industriale del fabrianese e le problematiche legate alla successione nelle imprese familiari.

   Nel “Grande Ente”, come lo chiamava, prevaleva in quegli anni il pensiero economico e gestionale di taglio fordista più che le stranezze di quello, sospetto, di Adriano Olivetti.

   Dopo gli anni di volontariato trascorsi in Sicilia nella Comunità di Mirto a Trappeto, dove aveva preso il posto che era stato di Danilo Dolci, Piero si ritrovò, come catapultato in un girone dantesco, con il corpo immerso nello Scientific management e la mente affamata di pensieri nuovi, nella costante ricerca di una costruzione più umanistica delle scienze e dei comportamenti manageriali e della dimensione conviviale dell’impresa, ispirata dalla concezione organizzativa presente nella Regola Benedettina. Ovviamente, quella testa saltò presto ma fu proprio tale sorta di esclusione da ruoli cruciali (oggi diremmo soft mobbing) a renderlo libero di ampliare il tempo da dedicare agli studi e alle ricerche più care ed a concepire più tardi quello che non esito a definire il suo capolavoro: Potere di convocazione. Manuale per una comunicazione efficace (Liguori, 2002)

   Ne riporto la recensione di Marco Minghetti: “Potere di convocazione è stato concettualizzato da uno dei padri fondatori dello Humanistic Management, Piero Trupia e che così viene definito nella Nona Variazione Impermanente del Manifesto dello Humanistic Management:
“La convocazione è invito attivo; è suscitamento dell’iniziativa discorsiva dell’altro, a partire dal riconoscimento di principio della sua autorevolezza in quanto altro. E’ lo sviluppo di relazioni dialogiche, che si prendano carico non solo di usare utilmente un rapporto dato, ma di costruirne/ricostruirne le premesse e rispecchia la differenza fondamentale fra il potere di convocazione e le altre forme di leadership in cui il prestigio, la tradizione, l’autorità sono pre-dati: sono già costituiti prima del loro esercizio. Di pre-dato nella convocazione c’è solo la volontà di esercitarla. Il prestigio viene esibito, l’autorità esercitata: la convocazione discorsiva viene costruita nell’interazione e in cooperazione con il convocato”. “Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra, ma dalla linea dell’arco che esse formano.”

   Poiché scopo di questo scritto non è la ricapitolazione sistematica del pensiero di Piero né l’analisi critica del corpus delle opere, quanto piuttosto il tentativo di rievocare il suo stile formativo da me percepito e vissuto in quei giorni e che ha segnato i quindici anni successivi in amicizia fraterna e collaborazione intensa e feconda, torno volentieri al viaggio a Berlino, un indimenticabile bildungsreise, che si svolse alla fine di aprile del 2005. Già in viaggio, ironizzammo a lungo su chi saremmo stati: Narciso e Boccadoro, Damiel e Cassiel, Terzo e Campari o, più prosaicamente, Totò e Peppino ? Trovammo una mediazione, ragionevole e letterariamente più coerente, su Naphta e Settembrini, poiché dialettici sarebbe dovuti essere i nostri punti di vista per manifestarsi come utili e generativi.

  Il ricordo della città aveva per lui un sapore agrodolce. Vi si era recato nell’ottobre del 1989 per partecipare ad un corso di tedesco di due settimane promosso dalla Federazione Giovanile di Berlino Est e proposto ad un costo molto popolare. Ricordava la struttura di ex campo di lavoro, la logistica spartana, il clima da istituzione totale e la preoccupazione che qualcuno scoprisse che lavorava in Confindustria. Sarebbe stato imbarazzante, almeno quanto la sua nomina a Klassenführer, in quanto più anziano della classe. < Sai che sono stato Führer ? – mi disse, ragionando sulla potenza delle parole - chi l’avrebbe mai detto ? Una bella carriera per un palermitano nato alla Saponeria ! >

   Raccontava delle brevi gite a Berlino ovest concesse durante il corso e vissute con una forte sensazione di disagio. Completato il corso, era tornato in Italia e pochi giorni dopo un amico lo aveva chiamato: < Abbattiamo il Muro ! Se puoi venire, faremo in tempo a dargli una spallata insieme ! > E Piero non se l’era sentita di restare sulle soglie della Storia. Una foto lo ritrae, avvolto in cappottone, accanirsi su un tratto di muro coperto da graffiti . < Ho ancora nelle orecchie il rombo delle migliaia di martelli – mi disse - il mio ha fatto ben poco, in venti minuti ho tirato fuori tre scaglie di cemento. Pensavo: la cortina era di ferro ma questo muro è d’acciaio. Con i vopos che impassibili si spostavano più in là sul muro, ad ogni settore che crollava. Finchè non ricevettero l’ordine di abbandonare. La Repubblica Democratica di Germania, il mondo diviso in due blocchi, la guerra fredda. Tutto finito>

   Ora tornava a Berlino dopo molti anni, con la compagnia di un amico appartenente ad un’altra generazione e con la curiosità di intravedere se, tra ciò che ancora restava di quelle macerie, potessero distinguersi i segnali “anomali” tanto spesso evocati e ricercati, del mondo nuovo che ne sarebbe dovuto sorgere.

   Alloggiammo in un albergo in centro e lì ebbe luogo il patto: durante la giornata e in sua presenza non avrei potuto fumare l’adorato sigaro toscano. Se il patto fosse stato mantenuto, avrei posseduto definitivamente la cravatta dai toni vivaci che mi regalava <per sostituire - ebbe a dire - le tristi regimental che sei solito indossare>. Ove il patto fosse stato rotto, il regalo sarebbe stato da me restituito, sine ira et studio che, nella traduzione dagli Annali di Tacito, significa “senza animosità né pregiudizio”.

   La cravatta era ispirata alla luce presente negli amatissimi quadri macchiaioli di Francesco Lojacono, esposti alla Galleria della Fondazione Francesco Zito di proprietà del Banco di Sicilia di Palermo e oggi della Fondazione Sicilia, la cui visita era tappa obbligata durante lo svolgimento del modulo di apertura del Master in Direzione del Personale che diressi per dodici anni in una delle più belle strutture alberghiere di Mondello dove Piero, “u professuri” era sempre ospite atteso, gradito e coccolato dal personale e dal titolare, mio consocio rotariano e idolatrato dagli ex allievi che, alla cerimonia di apertura di ogni successiva edizione, preannunciavano ai nuovi studenti l’unicità dell’esperienza che li attendeva.



   Il patto era nella natura di Piero: fissava un obiettivo volto alla salvaguardia del mio (e del suo) benessere, concretizzandone il raggiungimento e il premio in un oggetto di affezione che egli sapeva avrebbe avuto per me grande valore. Non fu facile mantenerlo, mi vennero in aiuto le Nicorette, gommose pastiglie alla nicotina, qualche cerotto con le medesime finalità e l’attesa - una volta lasciatici dopo la cena e le lunghe passeggiate notturne intorno al Checkpoint Charlie - di poter aspirare qualche boccata dell’amato trastullo sul balcone della mia camera.


Berlino, Pergamon, Porta di Histar - Immagine tratta dal sito https://www.tgtourism.tv/



    Le nostre chiacchierate avevano inizialmente come scenario i luoghi più visitati della capitale tedesca, alla ricerca del Genius loci che in ciascuno di essi dimorava: la Porta di Brandeburgo, l’ Unter den Linden, la cupola del Reichstag - “imballato” da Christo nel ’92 - realizzata da Norman Foster nel ‘99, il perimetro del Muro, il Neues Museum con il busto di Nefertiti, il Pergamon affacciato sulla Sprea, dove Piero riviveva gli anni persiani tra le maioliche vetrificate della Porta di Ishtar, recitando brani del matematico e astronomo del X secolo Umar Chayyam, autore del Trattato sulla dimostrazione dei problemi di algebra.

     Piero era claudicante, ma non conobbi mai altri in grado di tenere il passo di un boy scout cinquantenne allenato da lunghe camminate nei boschi e per i sentieri di montagna, sia nella mia Sicilia che durante le annuali vacanze alto atesine.


    Alternavamo gli itinerari tra Mitte e la campagna fiorita che circonda la metropoli: il Giardino botanico di Dahlem alla ricerca di nuovi ed impossibili innesti per la terrazza romana, Pfaueninsel, l’Isola dei Pavoni adagiata nel fiume Havel con il giardino giapponese silenzioso, tra nudi sassi e i ponticelli sospesi che rimandavano a L’Impero  dei Segni di Roland Barthes.

   Piero amava la Bellezza che intendeva come riflesso della perfezione dei numeri e ne chiedeva grande rispetto, asserendo convintamente che “Non è bello ciò che piace, ma è bello ciò che è bello”.

    Un approccio platonico rivisto alla luce del pensiero tomistico e della celebre affermazione dell’Aquinate: “Ad pulcritudinem tria requiruntur integritas, consonantia, claritas” e che James Joyce traduceva letteralmente, facendola pronunciare a Stephen Hero, il precursore letterario di Dedalus, in uno dei più bei romanzi di formazione che siano mai stati scritti dopo il Wilhelm Meister di Goethe: “ I translate it so: three things are needed for beauty wholeness, harmony and radiance. Do these correspond to the phases of apprehension? Are you following?”

   Seguiva l’indimenticabile apologo del canestro e così ci attardavamo, accalorandoci seduti sui gradini che scendevano al laghetto del Castello di Charlottenburg, mentre i cigni incuriositi si avvicinavano, quasi spettatori di tanto intenso dibattito su un tema che ai medesimi sarebbe apparso assurdo, per il solo fatto di essere essi stessi piena ed evidente manifestazione della Bellezza.


    Belli per Piero erano anche i graffiti di una comune di squatters (Hausbesetzer) alloggiata tra le rovine di un ex edificio per uffici di cinque piani trasformato in atelier alternativo ricco di creatività compressa ed esplosiva, tra fuochi all’aperto, giovani donne dalle gonne coloratissime e bambini con il moccio al naso.

   Meno belli gli apparivano, nonostante un passato da militante di sinistra, alcuni luoghi dell’ ex Berlino Est come Strausberger Platz, dominata dai propilei sovietici che segnavano l’inizio di Karl-Marx-Allee, l’immensa strada costruita per le sfilate militari della DDR e su cui prospettavano i tristi edifici del regime, gli unici con i balconi perchè masse entusiaste potessero affacciarsi ed applaudire il sogno tradito del filosofo di Treviri.

    Nonostante gli anni trascorsi dall’unificazione. vi si trovavano ancora negozi dalle vetrine vuote e androni polverosi dove ristagnava un grande sentore di miseria. Fu un lungo pomeriggio triste in cui restammo spesso in silenzio, immaginando come dovessero essere quelle che l’anno successivo Florian Henckel von Donnersmarck avrebbe chiamato Le vite degli altri , vincendo il Premio Oscar quale miglior film straniero. Lukács e Marcuse non giunsero in nostro soccorso, ma ci sovvennero le parole pronunciate da Solženicyn nel 1993 sul destino dell’Europa: “In Europa, l’abisso è profondo. Ha la malattia del vuoto. Tutte le sue élite hanno perso il senso di valori più alti. Il sistema occidentale passa al suo stato finale di spossatezza spirituale: legalismo senz’anima e abolizione della vita interiore”.


   Eravamo a Berlino per cercare profezie sotto le macerie del Muro. Alcune le trovammo già avverate.



    Respirammo ancora nei grandi spazi urbani del passato. In Alexanderplatz alla ricerca dell’ombra di Alfred Döblin, canticchiando Battiato, a Pariser Platz esplorando l’eterno confronto tra Kultur e Zivilisation; in Gendarmenmarkt con la Konzerthaus tanto simile al Teatro Massimo di Palermo, a Potsdamer Platz con il mito fragile e provvisorio del post moderno, in Babelplatz dove il 10 maggio 1933 gli studenti nazisti bruciarono le opere “degenerate” illudendosi di distruggere i fratelli Mann e poi Kafka, Freud, Darwin, Heine, Hesse, Benjamin e mille altri pensatori e poeti. Un rogo a cui si ispirò Umberto Eco, descrivendo l’incendio della Biblioteca ne Il Nome della Rosa e novellando la tragedia dell’integralismo, già manifestatasi per la prima volta nella storia ad Alessandria d’Egitto, come narrato da Plutarco.

    Di grande impatto ed intensa commozione fu la visita al Dorotheenstädtischer Friedhof, passeggiando tra le tombe di Brecht, Ficthe, Hegel, Heinrich Mann, Schinkel e tributando loro, da siciliani osservanti del rito ancestrale della Festa dei morti, un omaggio dialettico alla vita, al pensiero umano, al doppio debito contratto da noi contemporanei con le generazioni precedenti e con quelle future. Foscolo, Pindemonte e L’Antologia di Spoon River ci furono d’aiuto per trovare le parole giuste. Il Requiem di Mozart eseguito dai Berliner Philharmoniker ci restituì più tardi al mondo dei vivi.


    Poi le sorprese, rari ed inestimabili doni di ogni vero vagabondaggio: trovare sulla bancarella dei libri usati, oltre i cancelli della Humboldt-Universität , una copia de La stanza dei lumini rossi dell’amico palermitano e mio coetaneo Domenico Conoscenti, cercato invano in Italia per alcuni anni; riscoprire i prototipi dei mille oggetti del novecento funzionalista al Bauhaus, ripensando a Gropius e riflettendo sulla libertà dell’ educazione; acquistare in un mercatino dell’usato uno zaino Lafuma degli anni trenta, vero e proprio cimelio dell’alpinismo mondiale; cenare in un ristorantino di Kreuzberg e vedere Piero allibire mentre la prosperosa ed attempata Frau proprietaria del locale lo abbracciava sin quasi a soffocarlo, giurando di rammentarne il volto dopo molti anni. Sedutasi con noi, raccontò sino a notte fonda la storia degli amori della propria vita, i ricordi della Riviera Romagnola e quanto diversamente sappiano amare gli italiani. Quando ci offrì la cena, ringraziammo segretamente legioni di bagnini riminesi e le promettemmo, insieme ad un’ottima pubblicità, che un giorno saremmo tornati.


   Una mattina, durante la prima colazione, Piero mi annunziò che avremmo dovuto inserire nell’itinerario anche un mercato dove acquistare due uova. Mi sorpresi, visto che consumavamo i pasti sempre fuori, ma non volli approfondire, pregustando nuovi stupori. Ho sotto gli occhi la foto di quella mattina: Piero tiene in mano una confezione di uova. <Devo lavarmi i capelli> mi disse e spiegò il segreto della sua chioma bianca e luminosa, ancora folta e ribelle grazie a quel metodo < Ma, attento !- disse, puntando l’indice ammonitore che conoscevo bene e che avevo ritratto decine di volte – devi risciacquare con acqua fredda, altrimenti puzzerai di frittata ! In più, calmerai i bollori intellettuali prima che diventino deliri, poiché “come l’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, così l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente”>

     Ed io mi sentii Adso da Melk.

     Chi è il formatore ?

   Era la domanda, sottintesa anche nelle conversazioni più apparentemente amene, che ci interrogava attraverso le opere umane sotto i nostri occhi e la natura che le circondava affermandosi come ragione e causa delle medesime, che si nascondeva nei ragionamenti appassionati ma non per questo meno concreti. Tra le tante possibili definizioni me ne è cara una, originatasi in quei giorni, frutto di animate discussioni e verificata sul campo nei quindici anni successivi attraverso la progettazione e lo svolgimento di eventi formativi in cui, in molte occasioni, fummo l’uno accanto all’altro.


    Ebbene, il formatore evolve in due fasi, come dal bozzolo la farfalla: nella prima è un regista che predispone risorse, eventi, fonti, prove dissimulate e segnali nascosti, razionalità ed emotività, realtà e sogno, dizioni e contraddizioni, linguaggi e silenzio. Li mette a disposizione del protagonista, senza imporre alcun copione ma rispettandone la libertà di sbagliare e il tempo per rendersene conto, aspettandolo, con pazienza (e amore?) pochi o molti passi più in là. E mentre aspetta, sente di aver mutato la propria natura in quella di un alchimista inconsapevole che ha scoperto la Pietra senza averlo desiderato, ma quale ineffabile risultato, insperato e mai garantito, della propria vocazione e dell’incrollabile fede nella natura umana.

   L’ultima sera ci spingemmo sino alle rovine dell’ Anhalter Bahnhof la stazione dimenticata di Berlino, orgoglio della Germania prussiana e distrutta durante i bombardamenti dal 1943 al 1945. Da lì partivano e arrivavano i treni in direzione Roma, Napoli ed Atene tant’è che venne presto soprannominata “La Porta del Sud”. Forse sollecitato dai fantasmi di quell’andirivieni che sembravano aleggiare tra le rovine, Piero disse improvvisamente: < Hai letto Terzani ? – mi chiese - cita spesso un pensiero buddista “il maestro arriva quando l’allievo è pronto” Puoi essere il miglior formatore ma, quando diventi un Maestro? > Io elencai, non senza imbarazzo, i molti che avevo studiato ed amato: Socrate e Gesù, Sant’Agostino e Gautama, Giordano Bruno e Galilei, Francesco Bacone e Isaac Newton, Voltaire e Gramsci, Einstein e John F.Kennedy La lista era infinita e dava le vertigini.

   Poi, coloro che avevo incontrato personalmente, intessendo nel tempo trama e ordito di un’ intensa amicizia: Franco Modigliani, Hans G. Gadamer, Umberto Eco, Giancarlo Lombardi, Emanuele Severino, Mimmo De Masi, Franco Angeli,  Giovanni Sprini, Gabriele Morello e lui stesso, che non nominai per timore di piaggeria.

Piero Trupia, Giovanni Sprini, Gabriele Morello, 2009,  Hotel La Torre, Mondello

< Vedi – mi disse- in una sorta di eterogenesi dei fini, tu li hai riconosciuti come Maestri non per loro intenzione, bravura o carisma, abilità talvolta innate e che, in molti casi, si acquisiscono, ma perché in determinati momenti ed eventi della vita sei stato pronto a percepirli come tali e ti hanno segnato per sempre. In questo ribaltamento della prospettiva se stato tu a costituirli Maestri, eri tu a isolarne il profilo tra la massa dei tanti che avevi conosciuto sui libri o nella vita. Ecco la ragione per cui in molti altri essi suscitavano ammirazione e rispetto ma a te, invece, cambiavano la vita. Erano arrivati puntuali - e ripeté - il maestro arriva quando l’allievo è pronto. >

   Tacqui e scrutai nel buio di quell’ultima sera a Berlino l’ ombra della folla di quanti mi avevano aiutato negli anni a diventare un uomo. Avrei tanto voluto fumare il mio sigaro toscano !

   Piero “agglutinava” tutto in un personalissimo Athanor da cui distillava l’armonia di una relazione “ponte” colorata di mille sfumature, come la cravatta di Berlino che tengo di fronte a me mentre scrivo queste righe. Nessun margine tra un colore e l’altro, nessun confine disciplinare, nessuna ortodossia dogmatica, ma una tras-fusione continua tra saperi ed esperienze, un’esplosione di vitalità fatta di stimoli e di percezioni che restituisse la libertà di percorrere, ciascuno a modo proprio, il viaggio che la vita e la morte mettono davanti, quale completa e definitiva epifania dell’eternità di ogni singola ed irripetibile esistenza umana.

   Costretto, mio malgrado, dalla necessità di terminare questo racconto che, grazie ad un approssimativo diario redatto ogni sera su inseparabili Moleskine, mi ha consentito di rievocare profonde e care emozioni, mi piace pensare che il testamento di Piero Trupia possa essere contenuto nell’ ultimo dei Cento Talleri che ci ha lasciato in eredità: “Cosa ho trovato alla fine del viaggio? Che mi sono guadagnato il legittimo orgoglio, la certezza, forse, d’una predestinazione (è per tutti del resto). Gratis gratia data et gratia in me vacua non fuit. Bonaventura da Bagnoreggio”



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