sabato 25 giugno 2016

Fumo di Londra. Quel che resta dell’ Europa.





Non è servita a nulla la bandiera a mezz’asta esposta sulla torre del Parlamento britannico in segno di lutto per l’assassinio della deputata laburista  Jo Cox. Eppure, come un tragico monito,  avrebbe dovuto far riflettere  i sudditi del Regno Unito sulla responsabilità della scelta pro o contro l’Europa.

Nel volgere di poche ore le previsioni sono state ribaltate e con esse vanno in fumo sessant’anni di storia che realizzavano, pur con ogni limite umano e politico, la straordinaria visione concepita da Altiero Spinelli nell’esilio di Ventotene, mentre infuriava all’orizzonte il rogo della seconda guerra mondiale.

La Gran Bretagna lascia l’ Europa e non lo fa per elevate ragioni etiche o in vista di alternative migliori. Con uno scarto, non eclatante ma determinante, nella terra di John Locke e di David Hume hanno prevalso l’astio e non la ragione, la paura e non la fiducia,  il passato e non il futuro. Hanno preso il sopravvento impossibili nostalgie di un aureo isolamento coltivate da over sessantacinquenni e dai ceti popolari stretti nella morsa della crisi economica su cui hanno soffiato i venti della xenofobia e del razzismo, assecondati da una leadership miope che tentava di preservare se stessa, blandendo gli elettori con la promessa del referendum contro l’Unione.

Oggi quella mossa azzardata si è rivoltata contro i propri autori che dovranno assumere una responsabilità senza precedenti nella storia della Gran Bretagna poiché l’esito della consultazione che ha contrapposto i leavers ai remainers supera il Canale della Manica e si riverbera su un continente di oltre 500 milioni di persone che non perde solo una delle ventotto nazioni che compongono l’Unione,  ma quella che ne completava il significato e ne definiva l’identità.


Stanotte in Europa il tempo si è fermato e nello spazio di pochi secondi sono passati nella mente di molti di noi migliaia di immagini del passato individuale e collettivo legato indissolubilmente al rapporto con una terra che ha rappresentato per secoli la frontiera di ogni innovazione culturale, economica e sociale e la cui lingua ha preso il posto, dopo due millenni, del latino, contribuendo a globalizzare, nel bene e nel male,  la nostra esistenza.




Una terra che sta accogliendo da vent’anni larga parte della generazione Erasmus, offrendo non solo il lavoro per sopravvivere in condizioni di dignità e di tutela sociale ma soprattutto la possibilità di sviluppare quei talenti che paesi come l’Italia ogni giorno umiliano, spingendoli ad emigrare.

Senza la presenza britannica l’Europa corre il rischio di tornare  ad essere l’eterno campo di battaglia tra la Germania e la Francia, in lotta – impari -  per il predominio culturale ed economico, anche quando diplomatici abbracci sembrano voler mandare messaggi di altro segno. Quella stessa Francia che nel 2005 ha contribuito ad affossare il progetto di una vera Costituzione Europea e nel 2010 ha di fatto impedito la realizzazione dell’area di libero scambio nel Mediterraneo. Quella stessa Germania che non ha esitato ad umiliare la Grecia - pur non esente da pesanti responsabilità -  ed a finanziare il premier turco Erdogan perché facesse il “lavoro sporco” di intercettare con metodi inaccettabili i migranti che provengono da est, dando vita ai lager del terzo millennio.

Né può farsi affidamento sulle nazioni di quello che un tempo chiamavano BENELUX che già meditano in queste ore propri referendum o sulle lontane terre scandinave che, persino nella semidesertica Finlandia che pure deve tutto all’Unione ed ai ben utilizzati fondi strutturali, mostrano insofferenza verso i flussi migratori da cui sono molto parzialmente interessati.

Le new entries dei paesi baltici e slavi,  in cui una destra xenofoba e prepotente sta pervadendo menti da troppo poco tempo abituate alla democrazia occidentale, finiranno col trovare in Vladimir Putin il proprio riferimento e soprattutto il proprio finanziatore.

Cosa faranno l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Grecia,  sempre più incapaci di trovare una propria strada mediterranea verso lo sviluppo e la cui larga parte del debito pubblico non è più interno ma si trova nelle casse delle banche tedesche ? Basteranno leadership traballanti e movimenti velleitari a contrastare la protesta interna che ancora una volta trova nei migranti un nuovo capro espiatorio piuttosto che una risorsa indispensabile per società ormai invecchiate ?  Non è dato saperlo, ma i recenti successi del Movimento 5 Stelle in Italia possono essere  indicatori significativi circa l’avanzare di una politica che non sarà - forse - più “anti” ma, certamente non lascia comprende cosa essa veramente proponga in ordine ai grandi temi della contemporaneità.

La politica internazionale si regge da sempre sull’esile equilibrio delle forze in campo. Per decenni essa ha trovato nella contrapposizione tra i blocchi un pur discutibile assetto. Dopo la caduta del Muro di Berlino, è toccato all’idea di superare la CEE al fine di determinare un nuovo equilibrio che trovasse nell’integrazione “conveniente” il collante tra nazionalità diverse e sovente contrapposte,  disposte ad intraprendere la strada dell’ Unione, prima economica e presto politica. L’errore che oggi paghiamo a carissimo prezzo è quello di non aver saputo invertire la sequenza, ritrovandoci in un’ Europa dei banchieri piuttosto che degli statisti.

La paura per il “diverso”  ha fatto il resto. Quella stessa paura che indusse  l’Europa a non ostacolare l’ascesa di Adolf Hitler,  in funzione anticomunista,  salvo a pentirsene amaramente quando fu troppo tardi. E’ quella stessa paura che oggi genera ostilità - quando non lucra profitti - nei confronti di chi fugge dall’orrore di guerre note o dimenticate di cui il pianeta è disseminato.

Risuonano in queste ore parole logore volte a rassicurare circa la tenuta finanziaria dell’Unione ed a promettere nuove politiche più attente alla dimensione sociale. In realtà, nulla sarà più come prima poiché il breve braccio di mare oltre Calais è diventato un oceano dove galleggiano i relitti dei sogni di più di una generazione e sulle cui sponde opposte aleggiano non la promessa roosveltiana di un nuovo mondo possibile e migliore, ma il delirio di Donald Trump e i demoni del passato che egli rappresenta ed evoca.




Una delle più belle sequenze dell’indimenticabile film di James Ivory “Quel che resta del giorno” (The remains (!) of the day) uscito nel 1993,  si chiude con il rimpianto dei  protagonisti per un destino comune che si sarebbe potuto compiere anni prima se solo lo si fosse voluto. Nella pioggia battente sul lungomare di Brighton i due, ormai anziani,  si salutano, ben consapevoli, nonostante cortesi rassicurazioni reciproche,  che non si rivedranno mai più. Ciascuno seguirà in solitudine ciò che resta della giornata della propria vita.

Sotto l’ennesimo temporale di questo giugno triste, mentre ostinatamente vogliamo continuare ad aggrapparci a quel che resta delle nostre speranze,  ci è accaduto di essere attori e corresponsabili di una pagina indimenticabile di Storia di cui avremmo tanto voluto non doverci vergognare con quanti verranno dopo di noi.




Pubblicato da Sicilia Informazioni il 25 giugno 2016






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