lunedì 2 novembre 2015

Pasolini e il viaggio in Sicilia: un barocco che pare di carne




  Nella notte tra l’uno e il due novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini veniva massacrato selvaggiamente sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. Lascio ad altri commentatori ogni riflessione sulla vita, sull’arte e sulla morte di uno dei più gradi intellettuali italiani del ‘900 e, nel silenzio della nostalgia e del rimpianto, preferisco rievocare in queste righe il ricordo di un viaggio che egli compì nell’estate del 1959.

   Pasolini percorse la costa italiana al volante di una Fiat Millecento: “La lunga strada di sabbia” contiene il diari di quel viaggio “corsaro” nel cui contesto verrà pure rievocato il viaggio a Scicli (sulla delicata situazione degli aggrottati di Chiafura) che condivise con Guttuso, Trombadori e altri intellettuali del Pci più glorioso e mitizzato.


  Il brano che segue racconta la tappa da Messina a Pachino.
“Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come con Lawrence a Ravello, ma di gioia.
Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: come niente qui, potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annunzio, alla Gide. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. Lascio andare Taormina, che è indubbiamente una cosa d’una bellezza suprema (ma dove, come a Positano e a Maratea, io non mi sono trovato bene): posso però affermare che il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire.
Lo dico così, da turista. Approfondendo, conoscendo meglio, non solo con gli occhi, con le narici, le ragioni di un così improvviso amore devono risultare ben vere e ben profonde. Ma il mio viaggio mi spinge nel Sud, sempre più a Sud: come un’ossessione deliziosa, devo andare in giù, senza lasciarmi tentare.
Lascio gli enormi lidi di Catania, è notte, giungo a Lentini. Scendo per la cena: ma lì un profumo di limoni, una luna grossa come non l’ho mai vista, della gente che non aspetta altro che parlare, mi arresta. Fino dopo mezzanotte non mi so decidere a lasciare i nuovi amici che mi sono fatto, che mi salutano come ci conoscessimo da anni, uno dicendo: “Iddu ‘u core bono l’ave!”: e solo perché ho parlato un po’ con loro, dei loro problemi, del loro futuro.

Pachino, luglio più a Sud di così, è impossibile. Passo Noto, passo Avola. Giungo a Pachino, ch’è una cittadina piena di vita, di gente stupenda: ma non mi fermo, vado ancora più a Sud, arrivo a Capo Passero: una lingua di terra gialla con un faro bianco: e una selva di fichi d’India intorno, oltre le file di muriccioli sgretolati. E non mi fermo ancora: vado più giù, a Porto Palo, ch’è un paesetto miserando, acquattato dietro quella lingua di terra, con delle file di casucce rosse, e l’acqua degli scoli che passa in canaletti perpendicolari alla strade: la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce.
E non mi fermo ancora: arrivo al porticciolo di Porto Palo, dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India,con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: «Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama?». «Isola di Porto Palo!» mi fa, sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia.
Siracusa, luglio (…) Poi lasciamo l’Arenella, con le sue famiglie d’avvocati, e corriamo in giro: nemmeno a farlo apposta sulla nostra strada scorre l’Anapo. Figurarsi se ce lo lasciamo sfuggire. Ci incamminiamo per una stradina polverosa, lungo un campo di liquerizia che odora acutamente, ed ecco, seguito da una fila di ulivi, di carrubi, di fichi d’India, l’Anapo che sciacqua via verde, caldo, con la corrente zeppa di papiri. «I papiri, i papiri! – grida Adriana felice – Ci sono solo qui e in Egitto, te ne rendi conto?». La sente un ragazzo, che passa di lì: e, no, non esagero, ha una faccia antica, veramente, non so bene se fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale, e quelle schiene con le spalle sporgenti come si vedono dipinte solo nei vasi. Questo ragazzo, senza dir niente corre giù per la riva verdissima dell’Anapo, e strappa tre lunghe canne di papiro, con la loro frangia verde e sottile sulla cima. Le dà a Adriana, che tutta felice le afferra, se le stringe in mano. Davvero le donano”.

   Quel viaggio non fu soltanto suggestione e incantamento. La relazione tra Pasolini e la Sicilia fu insieme la tappa esistenziale e l’ ispirazione creativa che ritroviamo nelle riprese di “Comizi d’Amore” (1963), “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), “Teorema” (1968), “Porcile” (1969), “I Racconti di Canterbury” (1970); la storica messa in scena dell’ “Orestea”, al Teatro greco di Siracusa nel ’59 con Vittorio Gassman.
  Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì su una rivista romana “La libertà” il primo scarno libello del maestro di Racalmuto, “Le Favole della dittatura” di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale che Sciascia ricordò in “Nero su nero” nel 1980.


“… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso.
Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.
E voglio ancora dire una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del «Mondo», una lettera a Italo Calvino.”

  Quanto manca oggi Pasolini all’Italia? Quali editoriali avremmo letto sui principali quotidiani ad opera di chi aveva scritto “ Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”
  Quanti ne abbiamo amato la poetica e l’impegno civile possiamo solo distinguere la sagoma irrequieta che dinanzi ai tanti drammi del nostro Paese dall’innocenza ormai perduta sembra fremere, senza pace, senza riposo. A noi, timidi accattoni di residue speranze, resta il compito in cui ci fu maestro: rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono – e si amano – le lucciole.

Pubblicato da Sicilia Informazioni.com il 2 novembre 2015

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