sabato 11 dicembre 2010

Un Sindaco per Palermo. Tra nostalgia e voglia di futuro.

Leoluca Orlando - Fondatore della Rete
oggi Portavoce Nazionale di Italia dei Valori
  

Francesco Musotto, tra i fondatori di Forza Italia,
oggi Capogruppo MPA all'ARS


Roberto Lagalla, già Assessore alla Sanità del Governo Cuffaro,
oggi Rettore dell' Università degli Studi di Palermo


Si affollano in questi giorni le tante e doverose denunce sui  mali antichi e recenti della Città. Tra camper in giro per i quartieri martirizzati, estemporanee candidature di giovani rampanti e tumultuose assemblee di partiti e movimenti, viene a disegnarsi per chiunque dovesse fare il Sindaco di Palermo nei prossimi mesi una missione veramente impossibile.

Casse vuote alla Regione e al Comune, una folla di precari ancora in grado con il proprio consenso di condizionare il voto, ritardi infrastrutturali e di modernizzazione della Pubblica Amministrazione, una "classe dirigente" inadeguata e pericolante appaiono essere ostacoli insormontabili per la rinascita della Città.

Eppure, tutto ciò è nulla se  rapportato all' immagine di Palermo che in Europa e nel mondo hanno soprattutto coloro che guardano con attenzione ed equidistanza politica a territori in cui investire denaro, intelligenze, know how. A costoro, che scrutano i diversi scenari esclusivamente in funzione della capacità di attrarre investimenti, interessano solo alcune  caratteristiche. Tra queste, massimamente, l'affidabilità dei Governi locali - fondata su stabilità istituzionale, legalità attiva e innovazione di processo - e la credibilità personale, sotto ogni profilo, di coloro che li rappresentano.

Affronterò in questa inziale riflessione sul Sindaco di Palermo, questi primi due aspetti, che ritengo fondamentali per porre ogni premessa per il rilancio della Città che, soprattutto con il procedere del consolidamento del Federalismo e con l'uscita dall'obiettivo Convergenza dell'Unione Europea, non potrà che fare affidamento su risorse provenienti da cospicui investimenti esogeni.

La credibilità.
Si fonda sul diffuso sentimento, basato su riscontri soggettivi, che accompagna la storia e le azioni di un soggetto singolo o collettivo, fondante la propria essenza su una diffusa fiducia in valori e in comportamenti che da un certo momento in poi l'hanno generata e successivamente mantenuta.

L'affidabilità.
E' funzione della prima e in ogni parte del mondo tale concetto si traduce con un complesso di sentimenti fondati su riscontri concreti, su risultati raggiunti e mantenuti nel tempo, su coerenza tra valori proclamati e azioni concrete realizzate.

Credibilità e affidabilità sono dunque due nuovi aspetti che influenzano la scelta del Sindaco di una grade città e prendono il posto di quella che fu l' appartenenza ideologica e, più recentemente, l'appartenenza personale o familstica.

Credibilità e affidabilità internazionale sono oggi gli starter che attivano l'attenzione del venture capital su un territorio piuttosto che su un altro. La fiducia, ieri riposta nei sistemi, si è ora spostata sullo spessore delle persone e sulla conseguente capacità di tener fede ad impegni presi, adoperandosi per rimuovere gli ostacoli che rallentano lo sviluppo.La statura internazionale di tali persone è l'unica garanzia prima di tutto di essere ascoltati e solo poi di portare a casa i risultati sperati.

Credibilità ed affidabilità sono il prodotto di processi di formazione culturale ed esperienziale che trovano le proprie origini in convincimenti radicati, testimoniati e tradotti in opere visibili e durature che hano lasciato una traccia.

Essere credibili e, quindi, affidabili, significa riscuotere stima e considerazione presso soggetti portatori di sensibilità anche diverse ma che riconoscono in una persona indiscutibili doti di equlibrio personale e di onestà intellettuale (di ogni altro genere di onestà non parlerò perchè francamente ridondante).

Essere credibili e, quindi, affidabili sono i requisiti preliminari per costruire ogni foma di leadership che dichiari la difficoltà del cammino da affrontare per superare i momenti difficili e per generare nuove forme di convivenza e nuovi patti sociali.

Le società del Novecento sono state abituate  agli "uomini della Provvidenza" che promettono strade facili e percorsi in pianura, costruiscono retoriche forme di ottimismo, sdrammatizzano anzichè responsabilizzare e, soprattutto, pongono se stessi come solutori unici dei problemi da affrontare.

Eppure, l'essenza della leadership, quella vera la cui epifania tras-forma il mondo, è sempre connotata da parole di realismo quali :"vi prometto lacrime, sudore e sangue" W.Churchill, "non vi è alcuna strada facile per la libertà" Nelson Mandela, "un politco guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni" Alcide De Gasperi; "fai ciò che puoi, con ciò che hai e dove sei" T. Roosevelt, "non chiedetevi cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedetevi cosa potete fare voi per il Vostro Paese" J.F.Kennedy.

Il vero leader è allora non chi rassicura ma chi fa prendere coscienza dell'ineluttabilità del cambiamento, chiama alle proprie responsabilità, rende protagonisti i gregari e suscita energie nuove, nascoste ma tuttavia presenti negli uomini e nelle donne di ogni generazione nel mondo.

Egli  è colui che sveglia le intelligenze piuttosto che anestetizzarle, che inquieta piuttosto che rassicurare; è colui che non a-voca, nè in-voca, nè pro-voca ma che con-voca intorno ad una visione, al servizio della quale ( e non a capo della quale) pone se stesso. Non un leader di partito, dunque, quanto, piuttosto, un leader di coscienze.

Più le circostanze storiche sono difficili e "di passaggio" più esse richiedono questo genere di leadership, l'unico in grado di mobilitare energie, risorse, speranze, comportamenti, l'unico in grado di presentare le difficoltà con il realismo delle sfide piuttosto che nasconderle dietro promesse che si sa di non potere mantenere.

Il mondo è cambiato, la gente è cambiata, i siciliani sono cambiati e sono oggi in grado di distinguere tra quanti vogliono il potere per sè piuttosto che per consentire agli altri di potere.

Residue furbizie ereditate dal passato, parole d'ordine ormai fruste, prudenze, reticenze e ambiguità che ieri pagavano sul piano del consenso, oggi sono immediatamente individuate, analizzate ed interpretate da uomini e donne più istruite, più informate, più consapevoli dei propri diritti e, ormai, anche dei propri doveri. Mai come oggi le persone sono pronte ad accettare parole dure ma forti, chiare anche se amare, oneste sempre.

Mai come oggi i Palermitani hanno bisogno di sentirle da parte di chi può pronunciarle perchè sono l'espressione riconosciuta della propria vita, dei propri successi  e dei propri errori.

Mai come oggi i Palermitani hanno la necessità - e il desiderio profondo - di essere rappresentati nel mondo da qualcuno di cui essere fieri e con cui essere identificati, senza essere più costretti a mostrare, più di altri, patenti e certificati esimenti di un' identità storica e culturale ancora, da molti, percepita come opaca.

Essere credibili ed affidabili vuol dire allora essere pronti a pagare di persona anche per gli errori degli altri, assumendo la responsabilità di fondere la propria storia personale con una più grande storia collettiva.

lunedì 22 novembre 2010

A "Vieni via con me" si rifà l'Italia


Non appaia casuale che nel 150° anniversario dell' Unità d'Italia, lo straordinario successo, non solo mediatico,  della trasmissione di Fazio e Saviano stia acquistando, ogni giorno di più, il valore di elemento rifondativo della nuova identità complessiva del Paese.

A "Vieni via con me " si sta rifacendo l'Italia.

L'Italia  come è e  come vorremmo che fosse, l'Italia dei sogni migliori e degli incubi peggiori, l'Italia che meritano i nostri figli e i nostri nipoti e che alla nostra generazione di mezzo è stata negata.

Il format scelto è assolutamente inedito e sta alle formule abusate dei talk show d'importazione  come la penombra di una buona trattoria sta alle luci al neon di McDonald.

Vi si  parla il linguaggio semplice della gente, dando spazio alle aspirazioni comuni, a ciò che spesso non si ha il coraggio di ammettere, a temi complessi ma quotidiani, a storie di gente normale che fa cose straordinarie, senza riflettori, clamori, proclami.

Le Liste

Ci sono liste che hanno fini pratici e sono finite, come la lista di tutti i libri di una biblioteca; ma ve ne sono altre che vogliono suggerire grandezze innumerabili e che si arrestano incomplete ai confini dell’indefinito. La letteratura di tutti i tempi è infinitamente ricca di liste, da Esiodo a Joyce, da Ezechiele a Gadda. Sono spesso elenchi stesi per il gusto stesso dell’enumerazione, per la cantabilità dell’elenco o, ancora, per il piacere vertiginoso di riunire tra loro elementi privi di rapporto specifico, come accade nelle cosiddette enumerazioni caotiche

L'originale intuizione delle "liste" che fa da argine agli sproloqui ed alle iperboli alle quali la televisione tutta ci ha abituato, richiama alla mente Umberto Eco che, nell'introduzione a "Vertigine della Lista" (Bompiani 2009) ci ricorda: "Quello che rende la lista veramente inquietante è che essa comprende, tra gli elementi da classificare, anche quelli già classificati".

L'intuzione felicemente eversiva di mettere insieme, e al tempo stesso, contrapporre all'Italia dei luoghi comuni, della televisione becera e della politica da bar, un'altra Italia fatta di semplicità eroiche, di sentimenti autentici e di complessità comprensibili,  consente al Paese di guardare allo specchio le proprie contraddizioni del passato e del presente.

Possiamo definire "Vieni via con me" una trasmissione civile ? Io ritengo di sì, nella misura in cui sta restituendo valore alla dimensione comune dell'etica quotidiana, dentro il patto ideale di cittadinanza rappresentato dal riconoscersi nella Costituzione.

Possiamo classificare "Vieni via con me" un programma d'intrattenimento ? Io direi di sì, se restituiamo a tale aggettivazione il significato di un'  applicazione di se stessi a qualcosa che, dopo averne fruito, fa star meglio.

Possiamo inserire "Vieni via con me" tra i programmi culturali ? Io direi di no, vista l'ininfluenza della cultura, o meglio di ciò che se ne è fatto, nel comune sentire di un Paese che ha il minor numero di laureati in Europa e in cui spesso il termine culturale rinvia alla categoria dell' "inutile" e dell'"improduttivo" (fonti ministeriali..sic!)

La trasmissione di Fazio e Saviano sta di fatto impastantando, con l'umiltà esaltante degli esempi e con la concretezza scandalizzante delle testimonianze,  il cemento che dovrà tenere unita l'Italia dell'inevitabile Federalismo, sostituendo l'unità formale con l'identità sostaziale e  "multipla", costruita sul valore comune della diversità e non più su ideologie morte e sepolte, su elementi razziali, su distinzioni di classe e su provenienze territoriali di rango ineguale.

Un nuovo modo di essere televisione

È stata la televisione“ scrive Pasolini“ che ha, praticamente (essa non è che un mezzo) concluso l'era della pietà, e iniziato l'era dell'edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme della irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all' infelicità
(che non è una colpa minore) - Scritti Corsari, Garzanti, 1975
Una televisione, dunque, che forse piacerebbe persino a Pier Paolo Pasolini e che fuori  dalle coreografie plastificate della rappresentazione mediatica,  può finalmente svolgere la funzione critica (e non "educativa")  che può competerle, inserendola tra gli strumenti per la crescita di una comunità nazionale.Forse, finiti i lustrini, rivedremo un giorno "le lucciole" ?

La leggerezza

“Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza. Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla leggerezza penso d’aver più cose da dire. Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio.

Fazio e Saviano, ciascuno a proprio modo eroe eponimo dell'Italia che vogliamo, hanno fatto propria la   prima delle straordinarie Lezioni Americane di Italo Calvino (Mondadori, 1993), non a caso dedicata alla Leggerezza.

Quella modalità di essere e di comunicare che non in-voca, non pro-voca, nè, tanto meno, a- voca.

La leggerezza è piuttosto un sentimento gentile che con-voca, nel caso di "Vieni via con me", verso la visione di un Paese normale, eroico se occorre, ma solo se proprio non se ne può fare a meno. Una visione che potrebbe rappresentare l'antidoto che tutti cerchiamo per porre fine alla "conflittualità senza ideali" che è oggi la cifra distintiva dell'Italia e il prezzo più alto che essa paga sullo scenario internazionale.

Non possiamo ancora sapere se funzionerà, sappiamo solo che nella storia della buona televisione "Vieni via con me" un posto se lo è onestamente guadagnato.



domenica 7 novembre 2010

Come l'ombra di Banco a Macbeth




Pio La Torre nacque a Palermo il 24 dicembre del 1927.
Alle 9:20 del 30 aprile 1982, con un'auto guidata da Rosario Di Salvo, Pio La Torre stava raggiungendo la sede del partito in Piazza Generale Turba. Quando l'auto si trovò in una strada stretta, una moto di grossa cilindrata la bloccò con raffiche di proiettili. Da una vettura che seguiva scesero altri killer a completare il duplice omicidio Pio La Torre morì all'istante mentre Di Salvo ebbe il tempo perestrarre una pistola e sparare alcuni colpi, prima di soccombere.
Al funerale presero parte centomila persone tra cui Enrico Berlinguer


Ventotto anni anni dopo...

Le dichiarazioni di Leoluca Orlando danno voce al profondo disagio che tutti i militanti e gli elettori del centro sinistra siciliano, vivono ormai da mesi.Si tratta di parole forti, dure e finalmente chiare su quanti nel PD hanno tentato la facile scorciatoia verso l'esercizo di un potere non legittimato da alcuna volontà popolare. Sovvengono immediatamente le tante perplessità e il forte invito ad avviare la questione morale rivolti da Pio La Torre al proprio partito in Sicilia, prima di essere trucidato. Ribadisco che il PD, prescidendo dai risultati elettorali del passato, ha ormai perso la leadership morale dello schieramento, cui invece urgono parole e azioni nuove. Si tratta di un arretramento politico e culturale senza precedenti nella storia della politica italiana che riporta a momenti bui del PCI siciliano. Ci vorranno anni per dimenticare le pagine inquietanti che in questi giorni si stano scrivendo nelle stanze dei Palazzi siciliani.

Come l'ombra di Banco a Macbeth, il sacrificio di Pio La Torre torni ora ad agitare il sonno di quanti , dimenticandone il monito, oggi sostengono il più ambiguo governo che la Sicilia abbia mai avuto.

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Il testo che segue è tratto da Andrea Montella "Riflessioni sulla morte di tre segretari del PCI...."pubblicato il 19 settembre 2010 su prctogetti's blog

Le ragioni della morte di Pio La Torre si cominciano ad intravedere, come ben descritto nel libro di Lirio Abbate e Peter Gomez I complici – tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento (pagg. 105 – 110. Fazi Editore, 2007) nel 2001 quando i PM aprono il processo contro i killer del segretario generale del PCI, usando parole pesanti. Come pietre. Dice la Procura: «Mentre l’onorevole La Torre in maniera estremamente efficace e concreta spendeva il suo impegno politico, prima da parlamentare nazionale e componente della Commissione Parlamentare Antimafia, poi a partire dal settembre 1981 quale segretario regionale del PCI, altri numerosi e importanti esponenti politici colludevano con Cosa Nostra oppure con la loro inerzia, anche all’interno dello stesso Partito Comunista, finivano per accettare più o meno consapevolmente il progressivo infiltrarsi del sistema mafioso nei meccanismi della politica e della pubblica amministrazione».

Dice proprio così la Procura. Parla dei dirigenti del PCI inerti di fronte all’avanzare del sistema mafioso. E ha ragione.

Nel 1981-82 la questione pulizia interna al partito è in cima ai pensieri di La Torre. Il segretario sa di dover affrontare molte questioni scottanti. Vuole capire cosa sta accadendo e far chiarezza. Non solo a Palermo ma anche nei comuni vicini: Villabate, Bagheria, Termini Imerese, le terre dove Fontana, Castello e i loro amici la fanno da padroni.

Racconta Maria Fais, famiglia di solida tradizione comunista, protagonista del coordinamento antimafia e amica di La Torre: «Pio poneva con forza il problema di fare pulizia negli ambienti delle cooperative agrumicole di Villabate, Ficarazzi e Bagheria appartenenti all’area del PCI che operavano assieme a cooperative di altre aree politiche (democristiane e socialiste) in ordine all’accesso ai contributi AIMA per la distruzione degli agrumi in eccedenza. Alcuni compagni di base del PCI di Ficarazzi, compreso forse il segretario della sezione, gli avevano documentato che una delle suddette cooperative era di Ciaculli ed era formata da uomini del capomafia Michele Greco. Gli stessi compagni di Ficarazzi gli avevano riferito che le cooperative in argomento facevano truffe in danno della CEE mediante il rigonfiamento artificioso dei quantitativi di agrumi distrutti e che uno di coloro che dirigeva tale traffico era Antonino Fontana. Nel suo discorso al congresso dell’area metropolitana di Palermo, La Torre aveva duramente attaccato queste realtà. Poi aveva incaricato la commissione provinciale di controllo del partito di sottoporre a inchiesta disciplinare e, se del caso, espellere i dirigenti cooperativistici, oltre a Fontana, Carapezza e Mercante. Dopo la sua morte ho saputo che le misure disciplinari proposte non sono state attuate».

Anche altri testimoni, tutti iscritti nel PCI, confermano il suo racconto. Ferdinando Calaciura, il 22 aprile 1989, dice: «In quel periodo – e cioè nel giugno 1981 – il segretario della sezione di Ficarazzi del PCI, tale Ceruso, inviò un memoriale alla federazione provinciale, e a quella regionale e alla commissione nazionale di controllo del partito, accusando di gravi irregolarità alcuni rappresentanti della Lega delle Cooperative (che erano anche funzionari del partito ed esercitavano cariche in seno alle istituzioni) lamentando che la federazione provinciale del PCI avesse prestato copertura a tali irregolarità. I personaggi accusati dal Ceruso erano tali Fontana di Villabate e dintorni, cui il predetto Ceruso faceva carico di una spregiudicatezza nella commercializzazione degli agrumi, con particolare riferimento all’ammasso del prodotto per la sua distruzione e al mancato utilizzo, per la raccolta degli agrumi, dei braccianti che solitamente, nel passato, erano stati adibiti a tale attività [...]. Nell’ottobre o novembre 1981, si tenne a Palermo il convegno per la costituzione della zona metropolitana del PCI e a detto convegno partecipò anche Pio La Torre, che ancora non era stato formalmente designato dall’Assemblea regionale del PCI segretario del partito in Sicilia, ma del quale già si sapeva che avrebbe assunto l’incarico. In tale occasione, il La Torre riprese con toni vivaci il problema sollevato dal Ceruso in precedenza, dato che in quell’assemblea, in diversi, avevano affrontato l’argomento. Anch’io ero presente a quell’assemblea. Il La Torre, indicando nominativamente i personaggi nei cui confronti erano stati avanzati sospetti di irregolarità (il Fontana era noto come Mister Miliardo), sollecitò una incisiva indagine da parte degli organi di controllo del partito e promise che le risultanze di tali indagini sarebbero state rese note e discusse nelle competenti assemblee di partito. Per quel che ne so, il risultato delle indagini della commissione provinciale di controllo fu che i suddetti quattro aderenti al PCI, anziché essere espulsi dalla Lega delle Cooperative e dal partito, furono spostati dal settore agrumicolo ad altro incarico e credo anche in posti di maggior prestigio».

Su ordine di Giovanni Falcone i carabinieri si mettono alla ricerca degli atti del convegno in cui La Torre aveva affrontato di petto la questione Fontana. Ma è fatica sprecata: il testo del discorso del segretario assassinato dalla mafia è inspiegabilmente scomparso dall’archivio del PCI siciliano.

Eppure anche il segretario della sezione di Ficarazzi, Vincenzo Ceruso, conferma di aver inviato delle denunce: «Il mio intento era quello di sensibilizzare gli organi centrali e regionali del partito per una esigenza di “pulizia” nell’ambito di tutte le cooperative e al fine di accertare se in effetti i malumori dei braccianti agricoli avessero un fondamento o meno; in altri termini, chiedevo un intervento degli organi competenti del partito al fine di accertare se anche nell’ambito delle nostre cooperative fossero state commesse delle irregolarità e, in caso affermativo, di adottare i consequenziali provvedimenti nei confronti dei responsabili. Nell’esposto inviato a Pietro Ingrao e alla direzione regionale del PCI, materialmente predisposto da mio figlio, ma da me elaborato (si era alla fine del 1981 e ai primi del 1982 e io ero cieco), venivano fatti i nomi del Fontana, del Mercante, del Carapezza e dello Spatafora perchè costoro erano, all’epoca, i dirigenti delle cooperative facenti capo al nostro partito…».

Ma nonostante gli esposti, le indagini interne, le lamentele, non accadde nulla. Anzi, dopo la morte di La Torre, molti militanti che si sono opposti a Fontana e al suo clan lasciano il partito. A volte ne vengono addirittura espulsi. Antonino Fontana continua invece a far carriera. Nel 1984 il nucleo operativo dei carabinieri lo denuncia «per associazione per delinquere finalizzata al conseguimento di illeciti profitti ai danni della CEE e per truffa aggravata e continuata». Parte un procedimento penale dal quale Fontana, nel 1989, non uscirà con un’assoluzione, ma solo grazie all’applicazione dell’amnistia.

Nemmeno le indagini della magistratura ne arrestano però l’ascesa. Nel 1985 Fontana viene candidato dal PCI alle elezioni per il consiglio comunale di Villabate, ottiene 3.113 preferenze, diventa vicesindaco e assessore ai Lavori Pubblici. La sua forza elettorale e i suoi agganci con i vertici regionali del partito sono tali che, nel 1987, in molti pensano seriamente di presentarlo alle elezioni nazionali. Ricorda l’avvocato Alfredo Galasso, ex dirigente del PCI e poi tra i fondatori della Rete di Leoluca Orlando: «Anche se nel partito non mi sono mai occupato della gestione di società o di altre strutture economiche, tuttavia mi ero reso conto – almeno a partire dai primi anni Ottanta – che la pratica consociativa si era spinta sino al punto da non contestare i rapporti di affari che alcune strutture economiche, cooperative e non (basti pensare a Tele L’ Ora) del partito avevano stretto con personaggi molto vicini al blocco politico-mafioso all’epoca dominante. Chi per primo aveva posto il problema dell’impossibilità di perpetuare questo sistema era stato sicuramente Pio La Torre, il quale aveva denunziato il pericolo – quantomeno a livello politico – di questa situazione e aveva, per questa ragione, promosso anche una inchiesta interna al partito nei confronti di Fontana, Mercante, Carapezza e di tale Spatafora. Questa inchiesta – svoltasi tra il 1981 e l’aprile 1982 – si era conclusa senza che fossero stati adottati provvedimenti disciplinari contro gli incolpati. I quali, peraltro, dopo la morte di La Torre erano tornati a svolgere ruoli di primo piano all’interno delle strutture economiche del Partito, senza che nessuno ne mettesse più in discussione l’operato. Ricordo, anzi, che nel 1987 – in occasione della preparazione delle liste per le elezioni politiche del 1987 – la segreteria siciliana del partito aveva proposto anche la candidatura di Fontana, la quale venne esclusa soltanto perchè io e Claudio Riolo avevamo proposto ad alcuni dirigenti nazionali, quali l’on. Violante e l’on. La Torre, la opportunità di escluderlo anche in considerazione del fatto che nei suoi confronti era stato instaurato un procedimento penale per truffa alla CEE. In effetti la nostra proposta venne accolta e Fontana non fu candidato».

Ma se a Roma, a Botteghe Oscure, si fiuta il pericolo lo stesso non accade in Sicilia. Qui gli uomini delle cooperative agricole hanno più di un estimatore. Continua Alfredo Galasso: «All’interno del partito lo schieramento che dava le maggiori garanzie di copertura politica all’operato di queste persone è senz’altro quello al quale facevano capo, tra i più i noti, il sen. Emanuele Macaluso, il sen. Michelangelo Russo, il sen. Domenico Bacchi, l’on. Lino Motta. Un avallo alla politica consociativa perseguita in Sicilia, dopo l’assassinio di La Torre, venne anche dal c.d. “patto dei produttori”, un’operazione politica decisa dalla direzione regionale del partito, della quale facevano parte alcuni dei personaggi ora menzionati, che aveva determinato l’apertura del partito alle imprese dei c.d. “cavalieri del lavoro catanesi” e conseguentemente la loro legittimazione alla partecipazione ad alcuni tra gli appalti di opere pubbliche più importanti di quegli anni».

Il fatto è che il PCI vive una fortissima contraddizione interna. Da una parte è il partito dell’antimafia, del sostegno ai magistrati e alle forze dell’ordine. Dall’altra aspira a tutti i costi a governare. Ha bisogno di una sponda politica nella Democrazia Cristiana e in Sicilia l’ha trovata negli amici di Giulio Andreotti, ovvero in Salvo Lima, Nino Drago e in una serie di uomini un tempo legati al principale protagonista del sacco di Palermo, l’ex sindaco Visto Ciancimino, nato a Corleone e soprattutto in ottimi rapporti con Provenzano. E non è tutto. I comunisti siciliani, o meglio una parte dei loro dirigenti, sono anche vittime di una grande illusione. Pensano sia possibile ottenere finanziamenti da cooperative e imprese e, al tempo stesso, non subire condizionamenti.

Spiegherà nel 2000 Napoleone Colajanni, personaggio storico del PCI, dal 1960 al 1988 membro del comitato centrale: «I soldi degli appaltatori li ho presi anch’io quando ero segretario della federazione di Palermo. C’erano tre regole: primo, non mettersi una lira in tasca, secondo, non dare nulla in cambio, terzo, non farsi pescare. Gli imprenditori palermitani ci davano solo gli avanzi per cautelarsi a sinistra: se poi trattavano con la mafia erano affari loro».

Il denaro ricevuto dagli imprenditori, continua Colajanni, serviva a pagare gli stipendi ai compagni, l’affitto della sede e parte dell’attività del partito. La forma era la sottoscrizione per il “Mese della stampa comunista”: «Ci davano i soldi per una sorta di assicurazione a sinistra. E in verità erano molto pochi in confronto a quelli che davano alla DC. Erano proprio avanzi. Robetta. Ma nessuna compromissione, perchè non davamo nulla in cambio».

In realtà, visto che la pratica oltre che politicamente imbarazzante era anche fuorilegge, rendeva il partito ricattabile e lo esponeva al rischio infiltrazione da parte di Cosa Nostra. E questo è proprio quello che sarebbe accaduto”.

L’avanzare della corruzione nel PCI siciliano e non solo, preoccupava fortemente Antonio Tatò, la persona che aveva la massima fiducia di Berlinguer, che in una relazione del 21/26 ottobre 1981, tratta dal già citato libro Caro Berlinguer, gli scrive: “Ma ti segnalo anche la necessità di considerare che i comportamenti politici di coloro, come noi comunisti, che vogliono risolvere la questione morale – intesa come corretto rapporto tra distinti ruoli dei partiti, dello Stato, delle istituzioni e delle organizzazioni di massa – non sono coerenti, troppo spesso, con la tua impostazione e con gli obiettivi che vogliamo conseguire. Può sembrare paradossale, ma una questione morale in questo preciso senso politico (e non una questione di moralità) è aperta anche dentro il nostro partito. Troppi compagni, specie nelle amministrazioni locali e nell’affrontare i problemi di queste istituzioni, finiscono per scadere nelle peggiori pratiche tipiche dei partiti governativi, ignorano il metodo democratico e la verifica di massa di certe proposte o scelte, prevaricano con intese fra partiti (leggi: spartizioni) l’autonomia dei Consigli, delle giunte, delle USL, delle aziende pubbliche, degli enti comunali, provinciali, regionali. E quando scendono o si lasciano trascinare su questo terreno commettono ingiustizie politiche, mortificano professionalità, deludono compagni ed elettori, diventano “uguali agli altri” e, di necessità, restano disarmati di fronte ai ricatti degli altri partiti e vi cadono. Ti dirò a voce ciò che accade qua e là: ma a proposito di autonomia di funzioni e di ruoli, e di ripristino di un pieno e corretto funzionamento della democrazia nella vita politica e sociale, un capitolo doloroso e preoccupante è quello della situazione sindacale. Io non so se riceverai un’informazione “degli organi competenti”, ma in vista del congresso ormai imminente della CGIL, questa informazione chiedila ed estendila con una riunione di comunisti autorevoli che lavorano nei sindacati, ma destando anche l’attenzione dei congressi regionali su un problema che sta investendo il corpo e l’orientamento della classe operaia e dei lavoratori in forme e con conseguenze, ripeto, preoccupanti”.







domenica 24 ottobre 2010

Nell' intervista rilasciata a Fazio Marchionne fa quasi rimpiangere Vittorio Valletta.



Vittorio Valletta (1883-1967) resse la Fiat
con pugno di ferro dalla morte di Edoardo Agnelli (1935)
e sino alla maggiore età di Gianni Agnelli
 

Adriano Olivetti (1901-1960) tra gli operai di Ivrea



Illuminante l'intervista di Fazio a Marchionne. Rivela quanto si possa essere ancora figli di una visione che individua nel profitto la misura omologante del successo aziendale. Sembrano dimenticati termini quali "responsabilità sociale d'impresa", "governance etica", valorizzazione del "genius loci", "economia della conoscenza" ecc. Marchionne afferma di voler produre solo vetture e camion ed, allora, non mi pare utile farne anche un testimonial in una trasmissione intelligente. Sotto il maglioncino casual, una durezza maggiore di quella del siciliano Vittorio Valletta, vituperato epigono del capitalismo italiano, ma che, almeno, dava del tu ai propri operai.
Quanta differenza con l'innovazione visionaria e anticipatrice del futuro di Adriano Olivetti che oggi l' Italia rimpiange di non aver saputo comprendere!

Se la Fiat sostiene oggi di non aver più bisogno dell'Italia, anche l'Italia comincia a non poterne più della Fiat.
Da essa il nostro Paese ha ricevuto molto ma ha pagato un prezzo altissimo che può essere sintetizzato in alcuni elementi:
1) l'ha privato di una rete ferroviaria moderna ed efficiente che in altri Paesi europei si è sviluppata negli anni;
2) ha generato la cultura dell'automobile come promozione sociale ma, al tempo stesso, dell'individualismo;
3) ha distrutto, con la complicià della politica locale, interi ambienti naturali del Mezzogiorno, sottraendoli allo loro vocazione naturale e ad uno sviluppo economico flessibile e sostenibile;
4) ha drenato consistenti risorse pubbliche, sia in modo diretto che indiretto;
5) ha sradicato culture e colture che oggi rappresenterebbero un fattore competitivo di rilievo;
6) ha creato il mito dell'uomo Fiat, paradigmatico dell'operaio/impiegato che rinuncia alla propria identità per fondersi con quella aziendale sino a parlarne il linguaggio, anche in famiglia.

Non è un caso che Ulderico Capucci, tra i massimi esperti italiani di management,  narri spesso di aver preferito in giovane età l'assunzione nell' Unilever di quegli anni, già all'avanguardia nelle politiche di sviluppo delle persone,  piuttosto che nella Fiat-Caserma di Vittorio Valletta.

Certamente negli anni '50 e '60 il modello Fiat contribuì ad elevare il tenore di vita e le aspirazioni di un 'Italia (meridionale) da rurale a metropolitana, favorendo alfabetizzazione, mobilità e caduta di pregiudizi sociali. Ed è per questo che il Paese ha tollerato (e pagato) sino ad oggi tale  presenza pervasiva.
Oggi, alla stizzosa insofferenza di Marchionne corrisponda l'olimpica indifferenza di un Paese che, del pari globalizzato, compra le vetture che vuole sui mercati che vuole e che non può più essere ricattato su valori non negoziabili,  dallo spettro di una disoccupazione nel settore auto che, comunque,  arriverà ugualmente perchè la Fiat è già altrove.

Di ciò tengano conto FIOM e CGIL, ad oggi le principali  e ingenue (?) sponde all'algida alterigia canadese di Sergio Marchionne.
Prima che sia troppo tardi.

http://www.youtube.com/watch?v=SfKCGqa68wY

sabato 2 ottobre 2010

La realtà liminale:costruire/decostruire continue modalità e competenze per abitare la complessità


Appare sempre più evidente come l’attuale crisi porti con sé anche la sigla di chiusura dell’economia industriale e di quella che, a lungo, abbiamo definito “post moderna”. Un lungo periodo di difficoltà economiche quale quello che ancora si prospetta (il PIL in Italia dovrebbe tornare solo tra 5 anni a quello della vigilia della crisi) sta archiviando in modo traumatico il novecento e si sta rivelando come l’incubatore di nuovi costrutti filosofici e di inedite modalità organizzative. Non vi è dubbio che dopo questa crisi (dove la parola “dopo” ha un senso molto relativo, visto che il mondo procederà di crisi in crisi come più volte preannunciato) il mondo globalizzato si ritroverà con nuovi paradigmi geopolitici, nuove leadership internazionali, nuove aggregazioni economiche e nuovi paradigmi sociali.
Si può allora dire della fase attuale come essa sia “liminale” cioè rappresentativa di una situazione confinaria rispetto all’inedito in molti settori. Una vera e propria situazione di frontiera il cui varco è aperto solo per quanti sono consapevoli che esso esista e non siano piuttosto rivolti (past oriented) al rimpianto di un passato non replicabile. Ciò vale per le economie, per le società, per i sistemi di governance pubblica e privata, per il mondo della conoscenza e soprattutto vale per le consapevolezze individuali, di genere e di ruolo ancora sostanzialmente traguardate sul secolo scorso. Ne deriva che in alcuni campi di riflessione avanzata quali quelli dell’università, della ricerca e sviluppo, dell’analisi strategica, delle scienze del management e dell’alta formazione, naturalmente “obbligati” a confrontarsi con il futuro prima di altri soggetti, si stia svolgendo una vera e propria rivoluzione culturale, pur nella esiguità di mezzi finanziari ad essi ancora oggi destinati.
Le principali caratteristiche di una realtà liminale, avvicinabile a grandi linee a fasi del passato analoghe per tipologia ma non paragonabili per portata, vastità e complessità contestuale quali la caduta dell’impero romano, la scoperta dell’America o il fenomeno dell’inurbazione del XIX secolo, possono essere raggruppate in alcuni costrutti fondamentali…
  • La liminalità conferisce ansia a individui e ad organizzazioni e sostituisce il senso del fine con quello “della fine” di un’epoca e delle relative certezze, proiettando gli attori, primari e secondari, nell’incertezza profonda e nella baumiana liquidità di valori e di prospettive; essa pone una nuova domanda di significato pur avvertendo che la risposta non sarà mai più esaustiva.
  • La liminalità, per la natura confinaria che le è propria, costringe a “guardare l’altro da sé” e a conferirgli, talvolta malvolentieri, dignità e diritto di esistenza oltre ogni semplice “tolleranza”; ciò vale per mondi, culture e sistemi di pensiero sia individuali che collettivi.
  • La liminalità, poiché come tutti i varchi presenta punti delimitati di passaggio, non consente di traghettare nel futuro nulla più che parti dell’identità, rendendo necessario l’abbandono di ciò che non solo non è più utile ma che, proiettato nel futuro, ne pregiudicherebbe la piena realizzazione; essa è dunque un passaggio a maglie strette che molto probabilmente lascerà indietro individui, territori e collettività: i “doganieri” intransigenti della liminalità sono già oggi l’interesse pubblico, ormai mondializzato e rappresentato da attori spontanei e spesso non governativi, le invalicabili condizioni di sostenibilità dello sviluppo, gli oltre 4/5 di umanità finora non considerati per la definizione di modelli di sviluppo.
  • La liminalità ha epifanie a volte eclatanti e scenografiche quali i grandi mutamenti geologici, climatici, sociali e politici e, al tempo stesso, è popolata da micro manifestazioni comportamentali del singolo e delle società, nel privato e nel pubblico, inizialmente incomprensibili perché ancora mancati di un codice semantico che le decifri e le collochi in quella che un tempo veniva definita “la temperie” della nuova epoca; essa si serve di antichi simboli in modo nuovo ed è, a sua volta, potente generatrice di simboli inediti.
Il quadro sopra definito trova impreparati individui, società ed organizzazioni che, sovente, pur sollecitati da segnali deboli, ne hanno ignorato il potenziale evolutivo preferendo restare “present oriented” quando non addirittura “past oriented”. Non è la prima volta, peraltro, che l’Umanità si lascia cogliere impreparata dal cambiamento e vi soccombe: la differenza con l’attuale situazione è che stavolta non sono mancati né la consapevolezza né il tempo per fronteggiarne gli effetti. È vero, infatti, che la crisi finanziaria non era stata prevista dagli analisti sino al 2007, ma è altrettanto vero che i segnali di cedimento e la progressiva liquidizzazione del novecento erano stati annunciati da studiosi in più campi (Hobsbawm, Bauman, Rifkin, Fukujama). Gli ammonimenti circa “il secolo breve”, “la società liquida”, “l’era dell’accesso” , la – a lungo irrisa – “ fine della storia”, pur ricchi di proposte di percorsi per preparare il passaggio alla liminalità non sono riusciti ad influire sui potenziali decisori di grandi o piccoli “cambiamenti di rotta” da porre in essere in tempo utile.
La sfida dei prossimi anni sarà dunque saper costruire/decostruire continue modalità e competenze per abitare la complessità, attestandosi sui bordi dell’inedito e acquisendo familiarità con ciò che ancora sembra non essere.

venerdì 1 ottobre 2010

Otto punti per il rilancio di Palermo, con il coraggio di guardare in alto





Antica capitale della Sicilia e del Mediterraneo, città d'arte e di cultura, fondata intorno al suo porto, Palermo è da sempre stata punto d'incontro e di scambio fra storie, culture, razze e uomini diversi (dal Preambolo dello Statuto Comunale)

1)Palermo città giardino nel cuore del Mediterraneo
Ancora oggi gli arabi hanno nostalgia di Palermo che ricordano come terra di acque e di frescura, contrapposta all'aridità dei deserti da cui provenivano. Il disegno del centro storico non a caso favorisce la canalizzazione della brezza marina, gli edifici si contrappongono per darsi ombra e ogni falda genera una fontana. La Zisa per esempio, dispone del più antico sistema di aria raffreddata con acqua.
Che fare ?
a)Chiusura al traffico privato nell'intero Centro Storico dalla Statua alla Stazione e da pora Nuova a Porta Felice, in attesa della metro leggera che servirà anche il centro
Rigorosi orari per scarico merci solo con furgoni. Divieto assoluto per autoarticolati.
b)Grande piano di fioritura dei 4 assi (esempio di questi gioni a Parigi)
c) realizzazione del Parco Centrale (da Villa Trabia agli spalti dell'Ucciardone, superandovia Libertà con un tubo pedonale trasparente) emendamento al PRG 1997 a mia firma e ancora vigente

2)Palermo città aperta
Palermo appartiene più al Mediterraneo che all'Italia ed è li che deve guardare, piuttosto che farsi venire il torcicollo e guardare all'indietro verso un'Europa cui non interessa, se non sul piano turstico (se va bene)
Che fare?
a)Conferimento di cittadinanza mediterranea a tutti i cittadini dei Paesi rivieraschi (non è una novità, era prevista per il 2010 (Sic!), prima che la Francia bloccasse tutto
b)Piena apertura dell'Università ai giovani del Mediterraneo esentasse
c)Riconversione del circuito delle Caserme (ora ci aiuta il federalismo demaniale) per campus e alloggi universitari

3)Palermo città multi etnica
Lo troviamo scritto nello Statuto, quindi non è un sogno...è legge!
Che fare?
a)Apertura dei centri d'identità, sul modello delle 4 repubbliche marinare che avevano in città le proprie chiese, ovviamente al fine di favorire l'integrazione, non calpestando le identità.Offrirebero ogni tipo di servizio alla persona e sarebbero collegati con i centri per l'impiego e con le struttire di prima alfabetizzazione della lingua
b) Sviluppo dei talenti attraverso la selelzione dei migliori potenziali e l'offerta gratuita di percorsi di alta formazione e di ingresso nei circuiti relazionali significativi della Città (mio progetto Rotary, presentato a Vil Niscemi il 13 giugno scorso con Comune, Confindustria, Confcommercio, Provncia e Università) Obiettivo: avere in 5 anni una classe dirigente muliticulturale
c) Missioni di sviluppo nell'area sub sahariana (inutile crogiolarsi nell'idea di dar lezioni a Tunisia e Marocco, più avanti di noi di oltre 10 anni su molti versanti...andateci..)

4)Palermo città di città
Palermo è strutturata sia statutariamente che in termini di pianificazione urbanistica in 8 municipalità di pari dignità.
Che fare?
a) conferire deleghe, poteri e risorse ai Centri di Municipalità (veri e propri simboli identitari)unitamente ad una più logica distribuzione dei servizi di controllo del territorio senza duplicazioni ma con gli stessi compiti (dove non c'è una stazione CC, ci sia la finanza o la Polizia o i Vgili Urbani con serviz H24)
b) svilupparne i centri storici (a partire da una villa, una parrocchia, un rudere) e renderli vivi e protetti daglitessi abitanti
c)Istituire la Festa delle Cittadinanze che culmini nel Festino di Santa Rosalia come momento unificante

5) Palermo città de-industrializzata
L'industria pesante non è nel futuro del mondo occidentale. Palermo è cttà creativa per definziione (citata da De Masi nel libro L'emozione e la regola a proposito del Circolo Matmatico, ritenuto uno dei gruppi più creativi al mondo ...ricordarlo quando passiamo dalle vie Guccia, Cipolla, De Santis, Bagnera che ne furono animatori)
Che fare?
a) Dichiararsipubblicamente indisponibili ad investimenti tipicamente industriali, spesso obsoleti e canalizzaione verso impianti coerenti con le risorse naturali (es.porto)Palermo, capolinea europeo delle autostrade del mare
b)Aprire parte del patrimonio immobiliare pubblico al'insediamento di software house, laboratori di innovazione e incubatori di impresa collegati con mondi vitali in tutto il mondo e incentivarne la produzione di brevetti e marchi con procedure smart
c)ripristinare circuiti virtuosi di apprendistato in antiche produzioni, si pensi alla secolare esperienza delle ceramiche d'arte tra 700 e 800, alla marineria produttiva e da diporto, alla relativa ricettività con pacchetti competitivi in tutto il mondo.

6) Palermo città delle idee
Il patrimonio culturale non è più concepito come statico e museale in alcuna parte dell'occidente.Palermo è ancora schiava di una visione ottocentesca del percorso culturale. Non è ancora passata dalla "Visita guidata" all'"esperienza".
Che fare?
a) Riorganizzare i percorsi turistici e favorire esperienze dirette (dormire o cenare in alcuni Palazzi storici in convenzione con gestori privati calmierati)
b)Creare il museo delle idee, luogo interatttivo in cui si entra in contatto video con le menti più brullanti del mondo (vedi modello del Museo del Nobel a Stoccolma...andateci)
c)Creare una commissione nazionale con sede a Palermo per la valutazione in tempi rapidissimi della validità produttiva di idee (non si capisce perchè ai siciliani le idee vengano solo quando vanno fuori...non è così, solo che quando le idee le hanno, preferiscono non bruciarle..come sto rischiando di fare io...ma questa è un'latra storia)

7) Palermo città dei servizi alla persona
Palermo non conosce ancora la profonda de natalità del centronord, ma siamo vicini e, presto dovremo affrontare le stesse sfide di Genova o Varese o Verona o Bergamo.
Che fare:
a) Utilizzare le centinaia dii unità che sovraffollano gli uffici della P.A. Regionale e Locale, (per non dire dell'inutile Provincia destinata a scomparire, visto che siamo Città Metropolitana) da riconvertire con seri programmi formativi a destinare ai serviz alla persona (anziani, madri, bambini, ammalati domiciliati, tossicodipendenti) creati presso le Municipalità (c'è il rschio, visto il numero degli addetti di diventare la prima regione d'eruropa per rapporto 1 a1 !!!)
b) Istituire l'orario H24 nelle scuole per assicurare servizi educativi oltre gli orari scolastici da gestire i convenzione con privati, monitorati da una commissione di utenti
c) aprire corsie preferenziali per tutti i bambini/ragazzi verso sport, associazionismo e volontariato, attribuendo punteggi veri , e non inutili crediti, che vadano ad incrementare il cv e siano considerati elementi di peso nelle assunzioni

8) Palermo, città della vita
Otto sono i lati di Palermo, rovesciatieli e avrete il segno dell'infinito. Gli antichi ci sapevano fare con i simboli!!!Palermo ama la vita e la celebra in ogni manifestazione, anche quando commemora i morti (pubblici e privati) e li tratta da vivi.
Che fare:
a)Dichiarare Palermo Città Internazionale per la tutela della vita di tutti gli esseri viveni persone, animali, piante ed attrarre istituzioni governative e non, offrendosi come sede
b)Portare a Palermo il Centro Internazionale di Addestramento per la lotta alla criminalità organizzata (lo sognavano Boris Giuliano e Giovanni Falcone) cui destinare il Castello Utveggio
c)Disporre la concessione di aree per l'insediamento di primari soggetti internazionali ad elevata specializzazione nei settori della ricerca sulla qualità della vita dall'inizio alla fine ,sul modello ISMETT, ma a capitale interamente privato e in convenzione

Potrei continuare ma prima che qualche "solone" dica "utopie", date un'occhiata a questo brano:
Se tutto questo è utopia, lo è esattamente come lo erano l’habeas corpus, la Magna Charta, l’abolizione della schiavitù, il suffragio universale, la fine del colonialismo e dell’apartheid, la condanna costituzionale del razzismo, le pari opportunità, un Papa polacco, un presidente nero alla Casa Bianca. Il cammino dell’utopia coincide con il progresso della civiltà.


La visita di Benedetto XVI a Palermo


Qualsiasi polemica sulla visita del Papa a Palermo è, a mio avviso, arida, strumentale e, nel migliore dei casi, banale e superficiale. In quanto alle spese sostenute che vengono da più fonti pubblicizzate con sentimenti opposti, esse attengono ad altri aspetti e andrebbero semmai confrontate con quelle sostenute da altre città italiane per un evento dello stesso genere. Preferisco in ogni caso che, nei limiti della decenza, si spenda per questo piuttosto che per ospitare rock star portatrici di messaggi di odio o di disperazione e per le quali occorre pure pagare un biglietto. Sul fatto poi che Papa Ratzinger possa non piacere nel confronto con Giovanni Paolo II, va ricordato che ne fu il principale supporto e ne è oggi l'erede naturale per impostazione dottrinale e capacità di guida della Chiesa, nella chiarezza dei valori fondamentali e irrinunciabili. Su IOR, Marcinkus e su quanti fanno i soldi scrivendo su tutto e il suo contrario non dirò, perchè con il valore di questa visita non sono pertinenti.
http://www.youtube.com/watch?v=yKDwZJxXWyM&NR=1

Presentazione

Queste sono le prime parole che scrivo sul blog che ho voluto chiamare Incoming, a sottolineare il mio interesse per la costruzione di pezzi di futuro inedito nella società, nella cultura, nella politica  e nella mia terra. Vi troveranno spazio riflessioni di attualità, visioni e suggestioni di futuri probabili, idee progettuali e prospettive possibili e..impossibili.
Credo infatti che, a differenza dell'interpretazione corrente, la parola utopia non voglia indicare qualcosa che non c'è (a-topia) quanto qualcosa che non c'è...ancora. Sono convinto che la storia dell'Umanità sia la storia di utopie realizzate, anche anni dopo essere state evocate, inizialmente sottovalutate e, talvolta, irrise.