Nella fase finale dell’interminabile tramonto dell’era
Crocetta cominciano ad agitarsi le acque della politica siciliana dalle quali
dovrà prima o poi emergere un nuovo stile di governance in grado di colmare
l’enorme divario che ormai caratterizza l’Isola rispetto al resto del Paese.
Non vi è infatti rapporto o classifica che vedano la Sicilia
in posizioni diverse dalle ultime in ogni settore economico, in ogni ambito
sociale, in ogni aspetto della qualità della vita.
A poco vale
l’ossessivo ritornello della ripresa turistica che, come molti sanno, non è
stata l’esito di politiche di attrazione né frutto di investimenti specifici
quanto piuttosto, in larga misura, la
conseguenza dell’inevitabile flessione delle presenze straniere in Tunisia e in
altre aree del Mediterraneo caratterizzate da forte instabilità e dal rischio
di attentati terroristici.
La Sicilia dunque è
ultima, oltre che nei numeri che contano,
anche nell’immaginario collettivo atteso l’immutato livello di povertà,
di disoccupazione, di emigrazione giovanile, intellettuale e non e su di essa
pesa ancora l’ombra di collusioni o di contiguità tra la politica e la
criminalità organizzata nelle sue innumerevoli mutazioni.
Esattamente come
venti o trenta anni fa, seppur con tonalità e sfumature diverse, la Sicilia fa notizia – e, sovente,
spettacolo - per il degrado del
territorio, l’insipienza della classe politica, la labirintica
amministrazione, la subalternità dell’imprenditoria,
l’impoverimento del ceto intellettuale, l’assenza di grandi iniziative che
oltrepassino la specifica durata e consentano di apprezzarne risultati duraturi
nel tempo.
Una regione di cinque milioni di abitanti non può reggersi
sulla bellezza superstite dell’ambiente né sulla retorica del patrimonio
storico e artistico specie se entrambi sono ampiamente condizionati dalla
mancanza di risorse per curarne la salvaguardia, la manutenzione e uno sviluppo
moderno che oltrepassi abusate categorie di intervento e un innegabile obsoleto
approccio conservativo.
La Sicilia che ancora una volta, nonostante la posizione geopolitica e la tradizione di terra d’incontro, non è riuscita a trovare la propria strada per entrare nella modernità, sembra consolarsi con i ritagli di un passato spesso sopravvalutato e in qualche caso storicamente distorto.
Ecco allora il
patetico trionfo del cibo di strada, dei fasti del passato, dei richiami ad una
Sicilia Felicissima che non è mai esistita in quanto invece terra povera, eternamente subalterna, più
furba che intelligente, ossessionata dal potere e da un cupo sentimento di
dissolvimento mascherato da una finzione di “prorompente” vitalità.
Può essere utile ricordare come Gesualdo Bufalino, attento
conoscitore dell’animo siciliano e schivo intellettuale di provincia
tardivamente riconosciuto a livello internazionale (Campiello 1981 e Premio Strega nel 1988) descrivesse l’animo
dei propri conterranei nell’ Identikit
del Siciliano Eccellente:
Bufalino avrebbe rivisto oggi le proprie opinioni sui siciliani?
L’automobile che lo falciò in un incrocio alla periferia di Vittoria nel 1996
ha impedito di saperlo.
Tuttavia, chi scrive lo ritiene improbabile tenuto conto che
molte delle caratteristiche descritte sono ancora oggi rintracciabili persino
nei giovani siciliani che non hanno ancora lasciato la terra in cui sono nati.
Per le decine di migliaia che se ne sono
andati altrove, c’è da augurarsi che la profezia che Giuseppe Tomasi di
Lampedusa pone sulle labbra del Principe di Salina sia ancora valida.
“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano
riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a
vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un
paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità
civilizzata è qui, la stramberia fuori.”
Evocati due tra gli inascoltati cantori della sicilianità, spesso
fraintesi e interpolati, non vi è dubbio che sul versante della politica le
caratteristiche descritte da Bufalino siano ampiamente rinvenibili,
visibilmente incarnate e vadano tenute presenti nella fase in cui si anima il
dibattito sul prossimo Presidente della Regione.
Sembrano delinearsi al
riguardo alcune principali “scuole di pensiero”: da un lato c’è chi
cerca il consueto Uomo delle Provvidenza, un candidato cioè che incarni le doti
del superuomo, che sia conosciuto e riconosciuto anche fuori dall’Isola, che
sappia incantare le folle descrivendo leopardiane “magnifiche sorti e
progressive”. Non sembra di vederne alcuno all’orizzonte se non rivolgendo
all’indietro di almeno venti anni un immaginario cannocchiale che cerchi le
occasioni perdute. In ogni caso, del limite e dei rischi di una tale ipotesi siamo
oggi ben consapevoli.
Dall’altro lato soffia
il vento della cosiddetta antipolitica. Si dimentica però che, come
qualcuno ha notato, la vera antipolitica
si astiene e non va alle urne come ampiamente dimostrato da decine di
consultazioni locali e nazionali di anni recenti. Ciò che resta è un
movimentismo che, pur essendo liquidato troppo spesso con tanti luoghi comuni,
sembra conservare un richiamo ad una mitica democrazia diretta ed ha dalla
propria parte una componente generazionale di indubbio interesse se paragonata
all’età media delle classi politiche che si sono finora manifestate negli
schieramenti tradizionali.
Pur con molta cautela, il sociologo della politica
potrebbe rintracciarvi il seme di una classe dirigente allo stato nascente che
potrebbe nel tempo aspirare a costituirsi come tale ed a presentarsi agli
elettori con quella concretezza e credibilità cui ancora aspira.
Non desiderando annoiare il lettore, c’è infine la scuola di pensiero che vede nell’utilità di un quadro regionale
organico a quello nazionale una garanzia per la Sicilia di beneficiare di
maggiore attenzione e di essere destinataria di investimenti e scelte
strategiche conseguenti.
Ma qui fa difetto la memoria remota poiché
qualcosa dovrebbe essere stata imparata dai casi in cui ciò si verificò e anche
la memoria più recente, tenuto conto della posizione di siciliani ai massimi
vertici dello Stato e l’algida distanza da molti di essi tenuta nei confronti
della propria regione, ad eccezione, beninteso, dell’immancabile presenza nell’
affollato palcoscenico su cui si recitano abusati copioni che trattano di
mafia, antimafie et similia.
Non appare ancora
avere dignità adeguata la consapevolezza di quanto il vero handicap della
Sicilia stia nell’assenza di una classe dirigente che, anche se formatasi
all’ombra di un leader, ne abbia raccolto gli insegnamenti e non solo gestito i
voti e si sia costituita come superamento di se stessa e del leader medesimo,
rinnovandosi, favorendo la crescita di giovani di qualità, spianando loro la
strada piuttosto che decidendo di farne eterni quanto improbabili delfini
condannati ad invecchiare in seconda o terza fila con un destino simile a
quello di Carlo d’Inghilterra.
Se vi fosse in Sicilia
una sorta di Banca d’Italia, si potrebbe fare ricorso al vivaio di dirigenti formatisi sotto la guida di maestri come
Carlo Azeglio Ciampi, se in anni recenti si fosse investito in scuole di alta
formazione una ricerca fruttuosa potrebbe essere esperita tra gli allievi più
brillanti di Gabriele Morello o di Salvatore Teresi.
Purtroppo l’assenza del tempo futuro nella lingua corrente ha fatto si
che esso venisse sottratto ai siciliani di ieri e oggi. Ed è di ciò che la
Sicilia paga oggi il prezzo più alto, non avendo voluto guardare oltre il
contingente interesse di quanti l’anno governata con provincialismo e brama di
immortalità politica, frustrando e rendendo vani i tentativi coraggiosi di chi
è rimasto per impegnarsi pur consapevole di mettere a rischio il proprio
destino personale.
Alla vigilia di quella
che potrebbe essere definita come l’ultima possibilità per evitare gli errori
del passato, appaiono profetiche le
parole che Leonardo Sciascia scriveva già nel
1964 ad Italo Calvino:
"Della Sicilia si sa
ormai tutto, assolutamente tutto. Però questa compiutezza e chiarezza non
vengono anche dal fatto che la Sicilia è, nella sua realtà, deserto? (...)
Ormai c' è più Sicilia a Parigi che a Racalmuto, nella Torino razzista che
nella Palermo mafiosa. Bisogna avere il coraggio di seguire questa Sicilia che
sale verso il Nord, per trovare ragione più valida (almeno per oggi) di
scrivere" .
Oggi una Sicilia migliore sta crescendo altrove e
inevitabilmente si sta contaminando con il futuro che avanza nel mondo piuttosto
che crogiolarsi nell’alibi di una nostalgia delle contaminazioni del passato da
cui discende.
Chissà allora che non ci sia
un’ obbligatoria via da percorrere, quella della diaspora dell' emigrazione
(non solo intellettuale) per comprendere la sostanza dei fenomeni siciliani, ma
anche per raccontare il ruolo che la Sicilia ha giocato, nel bene molto più che
nel male, nell' intera vicenda di crescita del nostro Paese. Sicilia
internazionale, ricca di risorse, capace di produrre cultura e ricchezze, ma
anche di rimanerne senza.
E che sul
filo che lega "i siciliani di scoglio", quelli che rimangono
aggrappati alle rocce dell' isola, chiusi nei suoi confini e "i siciliani
d' alto mare", che rompono l’incantesimo dell' insularità e giocano su
terreni molto più ampi si sia capaci di abbandonare
la logora zattera di un’autoreferenzialità impossibile e di tessere una nuova vela
su cui soffi quel vento del cambiamento al quale finora, per suprema arroganza,
abbiamo negato la prua.
Pubblicato su Sicilia Informazioni. com l' 11 ottobre 2015