giovedì 17 marzo 2011

Fieri di essere italiani, resposabili di tale identità nel mondo, pronti ad accogliere quanti vorranno diventarlo

"Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri [antenati] di assisterci, forse temevamo che
nel farlo avremmo riconosciuto che la nostra individualità, che noi tanto riveriamo, non è interamente nostra. Forse temevamo che un appello a voi [padri] possa essere presa per debolezza. Ma siamo arrivati a comprendere finalmente che non è così, noi comprendiamo ora; ci hanno fatto comprendere, e assimilare la comprensione che, ciò che siamo è ciò che eravamo.
Abbiamo bisogno della forza e della saggezza per trionfare su i nostri timori, sui nostri pregiudizi, su noi stessi. Dateci il coraggio di fare ciò che è giusto"
Tratto da Amistad di Steven Spielberg.






    Grande giornata oggi, in un tripudio di sole, cielo terso, giovani dovunque, bandiere tricolore, una grande voglia di riscatto sociale, di riappropriazione del passato e del futuro, lontani da un presente che avvilisce e spaventa. E poi, musica, musica dappertutto, cantata, suonata, mimata, da uomini e donne di ogni età. 
  
   Può un rito collettivo così potente cambiare il corso delle cose ? Può restituirci il coraggio fisico ed intellettuale di dire quei sì e quei no che la prudenza di tutti i giorni induce a tenere dentro il nostro cuore e nel profondo della nostra mente?
 
   Io credo che oggi abbia messo radici qualcosa che potrebbe crescere,  ho sentito pronunciare dal Capo dello Stato parole forti e definitive, le ho viste raggiungere anche i più indifferenti, ho percepito un sentimento nuovo che, niente affatto retorico, è invece moderno e, per alcuni aspetti, inedito.

   Come se in tanti avessero intuito che ciascuno di noi è la ragione per cui sono vissuti e hanno lottato i nostri antenati e che, a nostra volta, abbiamo il dovere di esistere, di lottare e di costruire solo in funzione di chi verrà dopo di noi.

   Oggi, per la prima volta, ho sentito i grandi spiriti del passato uscire dalle cornici dei quadri nei musei, liberarsi dalla fissità del marmo dei Pantheon e dalla solennità mortuaria delle lapidi e camminarmi accanto non più come padri ma come fratelli.

   Ciascuno di essi mi ha sussurrato parole antiche e pure sempre nuove che indicano strade individuali e collettive che essi hanno percorso, con modalità e simboli diversi, e che aspettano anche me e la società in cui vivo. Parole che suonano aspre e dolci allo stesso tempo: parole aspre perchè definiscono valori, doveri, scelte dure e difficili che giungono a contemplare anche il sacrificio della vita, parole dolci perchè conferiscono senso e significato a quella vita di cui spesso facciamo spreco e che, solo in alcuni rari momenti o in circostanze particolari, viviamo come se stesse per terminare.
  
   L'italia, la terra dei miei padri e dei miei figli, non è un Paese eccezionale. I motivi sono tanti e diversi e non è questa la sede per esaminarli. L'Italia è, però, un Paese in grado di compiere, in presenza di specifiche circostanze, gesti eccezionali che la riscattano da una quotidiana, generalizzata apatia. e ce ne accorgiamo quando in gioco vi sono grandi emozioni, serie emergenze, grandi battaglie ideali.
  
  Allora il particolarismo guicciardiniano si trasforma nell'universalità di Dante, la furbizia del renitente o la viltà del disertore sfociano nell'eroismo dei due protagonisti de "La Grande Guerra" di Germi o del gigantesco Vittorio De Sica nel " Generale della Rovere", la mediocrità di Don Abbondio viene riscattata dall'orgogliosa umiltà del Padre Cristoforo, la strategia a tavolino di Cavour abbraccia il coraggio di Garibaldi e  trasforma il sogno mazziniano, destinato inevitabilmente a restare esule come il proprio autore,  in una realtà compiuta, pur tra mille conraddizioni.
  
  Il conformismo di intere generazioni di magistrati viene riscattato dal sangue di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e dei "giudici ragazzini" e si trasforma in piena assunzione di responsabilità, anche a costo di mettere a rischio il proprio destino istituzionale  e la propria "stabilità".

  Se potessimo "isolare", come in laboratorio, tale manifestarsi di moti d'animo in azioni concrete, avremmo a disposizione uno straordinario vettore di sviluppo e di civiltà e potremmo essere utili come e più di come lo fummo in passato, all'Europa e al mondo.
  
  Avremmo il coraggio di superare lo stupore e la prudenza interessata con cui assistiamo  inermi ad un dittatore che dopo 40 anni torna a schiacciare la domanda di cambiamento che sale del suo popolo, avremmo la forza di riconoscere la potenza dei nuovi linguaggi che salgono da uomini e donne nuove, non più collocabili nelle polverose categorie di "Sinistra" o di "Destra", piuttosto che rinchiuderci negli apparati garantiti dal tempo, acquisiremmo l'energia per dichiarare che il nostro Paese appartiene tanto a noi che ci siamo nati quanto a chiunque voglia viverci onestamente, senza rinunciare alla propria identità culturale o religiosa in nome di un melting pot anonimo ed omologante.
  
  Avremmo infine il coraggio di affidare questo Paese ai giovani, in un'immensa ed estesa "ritirata operosa" in ogni settore da parte di una generazione un po' egoista e troppo anziana per avere la voglia di correre quei rischi che sono l'unico varco che porta all'evoluzione dei singoli e della specie.

  Si, proprio quei giovani che le precedenti generazioni hanno inviato in tutte le guerre, costruendo poi, solo in parte, un Paese degno del loro frequente sacrificio.

  Si, proprio quei giovani che, frustrati da un '68 incompiuto, sono appassiti nel rancore, nella violenza o, più spesso, nel cinismo e nella disillussione.
  
  Il futuro ci sarà comunque e poiche non è così scontato come si potrebbe pensare che saranno i giovani a costruirlo da veri protagonisti,  dobbiamo aiutarli già adesso a farlo, non a nostro ma a loro modo, limitandoci a sostenerli, a incoraggiarli e a liberarli dai nostri pregiudizi e dalle nostre ubbie, pronti a farci da parte se la nostra "saggezza" dovesse sconfinare nella prudenza o in quella real politik della vita che si chiama paura di cambiare.

   Ecco, consegniamo ai nostri figli bianchi, neri, gialli, cattolici, musulmani, agnostici, questa Italia, fresca dei suoi primi centocinquantanni, limpida come la giornata che abbiamo vissuto, emozionata come forse è mai  stata, coraggiosa come sovente ha temuto di essere, libera di andare "per l'alto mare aperto".

   Non ce ne pentiremo e un giorno essi potranno dire di essere la ragione per cui noi oggi abbiamo vissuto.

   Palermo, 17 marzo 2011