sabato 25 aprile 2015

Cento anni di genocidi: tra rimozione e indifferenza il sogno di una vera liberazione







La recente rievocazione del genocidio del popolo armeno apre una lunga serie di tragiche ricorrenze che rinnoveranno nei prossimi anni il ricordo di un secolo che,estesosi ormai oltre le soglie del precedente, sarà ricordato per sempre con rassegnata vergogna e con costante inquietudine.

Il termine fu coniato da Raphael Lemkin, giurista polacco, proprio di origine armena. Il neologismo volle dare un nome autonomo a uno dei peggiori crimini che l'uomo possa commettere. Comportando la morte di migliaia, a volte milioni, di persone, e la perdita di patrimoni culturali immensi, il genocidio è definito dalla giurisprudenza un crimine contro l'Umanità

In quel lontano 1915 i Giovani Turchi, tardi epigoni di un impero ottomano ormai al tramonto, si resero responsabili per la prima volta nella storia moderna dell’Umanità di una nuova modalità di sterminio condotta con una pianificazione dettagliata e un dichiarato obiettivo finale da raggiungere: la scomparsa di un intero popolo mediante la soppressione fisica di uomini e di donne, di anziani e di bambini e persino di non ancora nati.

Un primato raccapricciante inaugurava il ‘900 dell’orrore che avrebbe visto non solo due immensi conflitti mondiali e l’esordio dell’era atomica ma anche l’affermarsi del convincimento che potesse esistere un nemico collettivo da cancellare per sempre dalla faccia della terra.

Le immagini di antichi o recenti genocidi ricordano la definizione dell’accademico francese Gérard Prunier, secondo il quale mentre la pulizia etnica è lo sterminio di massa di una parte della popolazione per allontanare i sopravvissuti ed occupare il territorio, nel genocidio "vero" non esistono vie di fuga: anche i gruppi religiosi e politici non possono salvarsi attraverso la conversione o la sottomissione.

L'intenzione genocida, il desiderio di distruggere la popolazione vittima in quanto tale (spesso assieme alla sua memoria culturale) non è solo quello di assicurarsi il controllo di territori o risorse economiche eliminando gli oppositori reali o potenziali. Nel genocidio, il massacro è un fine e non un mezzo. È facile constatare tale intenzione se è esplicita e sistematica e accompagnata da prove documentarie prodotte dall'aggressore, mentre è difficile se è implicita e tendenziale.

La maggior parte degli eccidi del nostro tempo può essere considerata come appartenente alle categorie dell’esplicito e del sistematico.

La spaventosa cronologia dell’orrore può essere così riassunta:

Armenia 1915. Il genocidio ebbe carattere nazionale e religioso (armeni – ottomani) e ebbe come obiettivo l’eradicazione territoriale totale realizzata mediante deportazioni,carestie, malattie ed esecuzioni. Fece un milione quattrocentomila morti pari a circa il 70% della popolazione. Ancora oggi la Turchia ne nega l’intento genocidiario.

Holomodor 1932 -33 si inserì nei processi di sovietizzazione e provocò circa sette milioni di morti tra la popolazione ucraina rea di non voler rinunziare alla propria identità. Fu perpetrata attraverso una carestia pianificata, tra l’indifferenza della comunità internazionale

La Shoa, il genocidio più conosciuto e studiato anche a motivo della cornice bellica in cui ebbe luogo, si svolse dal 1941 al 1945 ed ebbe come scopo la soluzione finale del popolo ebraico (e di altre minoranze etniche) in un quadro di deliranti politiche eugenetiche. Fece oltre cinque milioni di vittime e rappresentò il massimo esempio di pianificazione operativa e amministrativa coinvolgendo l’intera popolazione tedesca che fu sostanzialmente passiva, quando non direttamente e consapevolmente impiegata nell’organizzazione dello sterminio.




In Cambogia dal 1975 al 1979 i Khmer rossi soppressero un milione e ottocentomila persone appartenenti in gran parte al ceto medio ed intellettuale, nell’intento di creare “un nuovo popolo” e di cancellare ogni influenza occidentale. Insieme ai quelli vietnamiti che fuggivano dal sud riconquistato da Hanoi, i profughi furono i primi boat people, si registrarono i primi respingimenti da parte di paesi quali l’Australia e le Filippine e diverse migliaia annegarono o furono divorati dagli squali. La Marina Militare italiana si distinse portando in salvo un migliaio di persone.




In Ruanda nel 1994 si consumò il genocidio degli Tutsi ad opera dell’entia degli Utu (minoranza etnica al potere) che pur sconvolgendo l’opinione pubblica internazionale anche per il prevalente uso di armi bianche sulle vittime, vide spettatori inerti anche le truppe ONU, inviate nel paese con regole d’ingaggio incerte ed ambigue. Con circa un milione di vittime venne estinto circa l’80% dei Tutsi.

Dal 1992 al 1995 ebbe luogo la tragedia bosniaca quale epilogo della dissoluzione della Iugoslavia. L’intento dichiarato da parte dei serbi di “ripulire” il paese dai mussulmani portò alla morte oltre centomila persone e vide l’impiego consapevole e pianificato dell’abominevole tecnica dello stupro etnico. Per quanto tardivo l’intervento bellico europeo e statunitense, cui prese parte anche l’Italia, riuscì a porre fine alle stragi e alla dittatura di Slobodan Milosevic che sarà poi giudicato dalla Corte Internazionale dell’Aja, senza tuttavia che si giungesse alla condanna, a seguito della morte dell’imputato sopravvenuta nel 2006.
Altrettanta rilevanza ebbero i frequenti interventi con intento genocidiario promossi da Saddam Hussein nei confronti dei curdi mediante l’impiego di armi chimiche, dal 1973 e sino alla vigilia della caduta del regime Baathista nel 2003.

Insieme ai fenomeni che è stato possibile definire in un determinato periodo temporale, vanno annoverati quei genocidi “lenti” che si protraggono ancora oggi e vedono principalmente coinvolti il popolo palestinese, le minoranze cristiane in Asia e nel centro dell’Africa ad opera di governi sovrani o di fazioni fondamentaliste spesso contrapposte.




Con la saldatura di molte di queste fazioni nel Califfato Islamico(ISIS o DAISH) guidato da Abua Bakr al- Baghdadi che ha raccolto l’eredità politica di Osama Bin Laden e con il riaccendersi dopo il 2011 della rivolta mussulmana in Siria, Iraq, Tunisia e Libia il fantasma del genocidio è tornato ad agitare il mondo per due principali ragioni. La prima riguarda l’interpretazione militare del Jihād coranico finalizzata alla distruzione del mondo degli “infedeli” dichiarato come inconciliabile con l’Islam; la seconda ragione ha a che vedere con le persecuzioni civili e religiose che stanno spingendo milioni di persone ad un esodo biblico verso l’Europa, mediante l’utilizzo di ogni mezzo di trasporto, a partire da quello affidato ai tragici barconi che cercano in ogni modo di superare il Canale di Sicilia.




Ancora una volta l’Occidente sembra in larga parte rifugiarsi nell’indifferenza come in passato si chiuse nell’ignavia e nel successivo tentativo di negazionismo, allontanando da sé il problema e lasciandolo sulle spalle dei paesi rivieraschi in cui approdano i profughi il peso dell’accoglienza come previsto dal Trattato di Dublino; la più recente modifica apportata nel 2008, non prevede infatti quando sarebbe accaduto nel Mediterraneo nel volgere di pochi anni e si basa ancora sulla previsione di un limitato numero di aventi diritto allo status di profugo, così come lo stesso è definito da trattati internazionali ormai datati.



Il dibattito in corso in queste ore si scontra con l’esito parziale e insoddisfacente del Consiglio Europeo del 23 aprile dove si è stabilito che “saranno compiute azioni per individuare e distruggere le imbarcazioni dei trafficanti prima che siano usate. Queste azioni saranno in linea con il diritto internazionale e il rispetto dei diritti umani. Si porterà avanti una cooperazione contro le reti dei trafficanti attraverso l’Europol e schierando funzionari per l’immigrazione in paesi terzi. Saranno triplicati i finanziamenti alla missione di sorveglianza e salvataggio Triton. Il mandato di Triton non sarà modificato e continuerà a rispondere alle chiamate di soccorso dove necessario. Sarà limitato il flusso dell’immigrazione irregolare e si eviterà che le persone mettano a rischio le loro vite attraverso la collaborazione con i paesi di origine e di transito, soprattutto i paesi attorno alla Libia.

Sarà rafforzata la protezione dei rifugiati. L’Unione europea aiuterà i paesi di arrivo dei migranti e organizzerà la ricollocazione dei migranti negli altri paesi membri su base volontaria. Chi non otterrà lo status di rifugiato sarà rimpatriato.”

Se non suonasse macabra in tale circostanza, si potrebbe utilizzare l’espressione “una goccia nel mare” per definire ancora una volta l’indifferenza dell’Europa (non solo degli stati ma soprattutto dei popoli) e la sottovalutazione di un fenomeno epocale che scuoterà nei prossimi anni le fondamenta stesse di un Vecchio Continente il quale sembra non avere ancora imparato nulla dalla storia e si appresta a diventare responsabile di un ennesimo genocidio dalla proporzioni gigantesche che si consuma nella tomba liquida del Mediterraneo.

Né può essere in alcun modo esimente la preoccupazione elettoralistica, com’ è risultato in modo evidente dalla dichiarazioni del premier britannico Cameron, dell’eventuale avanzata dei soggetti politici della destra europea, in presenza di politiche di accoglienza ed integrazione omogenee in tutta l‘Unione.



Nel giorno in cui celebriamo la Liberazione dal Nazifascismo, sarebbe opportuno riflettere se stiamo ancora una volta comportandoci come coloro che nei tanti eccidi del nostro tempo si sono voltati dall’altra parte, imponendosi di non voler sapere cosa stesse accadendo, salvo poi celebrare ipocritamente le vittime innocenti innalzando monumenti di ossa umane. E sarebbe utile ricordare il sacrificio di milioni di soldati alleati provenienti da tutto il mondo che sono sepolti nei grandi cimiteri di guerra spesso vicini a quelle spiagge in cui sbarcarono e morirono perché il mondo diventasse migliore e la speranza della “felicità” - come ha ricordato Papa Francesco pochi giorni fa - fosse per tutti gli abitanti del pianeta il primo inalienabile diritto.

Se anche stavolta - e potrebbe essere l’ultima - ci chiuderemo nelle fortezze vacillanti della nostra “normalità” suoneranno implacabili le parole di Hanna Arendt a conclusione del processo che condannò l’ex contabile della morte Adolf Eichmann a Gerusalemme il 31 maggio del 1962 :Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali.” La banalità del male - Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 2003



Pubblicato da Sicilia Informazioni.com il 25 aprile 2015