sabato 14 novembre 2015

Guerra e fantasmi, Parigi come Beirut: è ora di togliersi i guanti?



"Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra”. 
   Con queste memorabili parole Winston Churchill stigmatizzava nel 1938 l’esitazione della Gran Bretagna e l’ignavia delle democrazie occidentali nel contrastare con ogni mezzo l’espansione del nazismo in Europa. Molti decenni dopo quel monito risuona tra le sirene delle ambulanze parigine e i fantasmi di un passato che ci illudevamo di dimenticare si intravedono tra il fumo e le macerie delle esplosioni.
    Come nel peggiore degli incubi, più di cento persone che trascorrevano il venerdì sera allo stadio e nei locali della città risultano morte. 

       Parigi brucia? 
    Come nel film diretto nel 1966 da René Clément, ispirato all’omonimo libro di Larry Collins e Dominique Lapierre, chi dall’altra parte del Mediterraneo è tenuto al corrente dai propri sodali sulla riuscita dell’azione combinata posta in essere poche ore fa ?
    Mentre si inseguono di momento in momento le notizie di attentati in alcune altre zone della città, si ha la sensazione di un vero e proprio attacco terroristico ad obiettivi multipli con sette gruppi di fuoco. Si tratta di un evento mai registrato in Occidente che si sta svolgendo in diretta sotto i nostri occhi, consentendoci di guardare le scene di panico e di sentire gli spari, le invocazioni dei feriti, le grida di esaltazione lanciate dai terroristi.


   Il panico sembra dilagare nelle zone colpite e frotte terrorizzate di parigini esitano tra il timore di muoversi da dove si trovano e il bisogno di correre verso casa, sfidando il lancio delle granate, in cerca di un rifugio sicuro. Una nuova Beirut nel cuore dell’Europa sembra ora sancire come sia finita l’epoca dell’illusione che il terrorismo islamico fosse una questione di altre terre, di altre culture, di un’altra umanità lontana dall’Europa ricca e “felice”.
    E’ impossibile narrare sulla carta una cronaca che può essere seguita in tempo reale solo attraverso le televisioni di tutto il mondo. Alcuni fatti sembrano pero chiari sin da ora: l’attacco è stato pianificato militarmente da un mente unica, le rivendicazione da parte dell’ISIS si susseguono sui social network, la gravità della situazione ha indotto il presidente Hollande ad assumere scelte da stato di guerra: chiusura delle frontiere, mobilitazione delle forze armate e dei corpi speciali, invito ai cittadini parigini a restare chiusi in casa.
  Altrettanto chiari sono ormai gli errori commessi dopo l’attentato a Charlie Hebdo nel gennaio scorso.
  Il primo è senz'altro quello di avere ritenuto di applicare le categorie di pensiero occidentali nel contrasto con forze che sembrano emerse dal peggior medio evo e con le quali è ormai impossibile ogni tentativo, peraltro finora frustrato, di dialogo. Il secondo è quel residuo pudore di pronunciare la parola “guerra” pur davanti all’evidenza di un attacco ormai continuo al paese simbolo di tutto ciò che l’Europa rappresenta nel mondo. Il terzo, e più grave, è il ritardo con cui stiamo constatando l’ennesimo fallimento delle Nazioni Unite, ormai incapaci di giustificare la propria esistenza dinanzi al mondo intero.
   Persino il messaggio di Ban Ki-moon appare patetico mentre invita terroristi pronti a farsi ammazzare a consegnare gli ostaggi: l’ennesima dimostrazione di non aver ancora compreso con chi e con che cosa abbiamo a che fare.
   Nonostante le parole di Obama che ha accostato quanto sta accadendo a Parigi al dramma dell’11 settembre 2001, si ha come la sensazione che esse cadano ormai nel vuoto e che non ci sia più spazio per dichiarazioni, per marce di solidarietà e per inviti alla cautela e alla prudenza.
   Ancora una volta intelligence e diplomazia hanno fallito come è normale che accada ove non si comprende che i mostri che ci attaccano non parlano alcuno dei linguaggi della modernità. Per i terroristi islamici, infatti, essa non solo non esiste ma rappresenta il vero nemico da abbattere e distruggere al pari delle architetture di Palmira e di quanti hanno tentato invano, anche a costo della propria vita, di proteggerle.

L'archeologo Khaled Asaad, 82 anni, decapitato dall' ISIS nel scorso mese di agosto
   Purtroppo sappiamo già cosa accadrà. La Francia si muoverà in modo autonomo costringendo anche gli alleati a passare dalla guerra dei droni a quella molto più drammatica “degli scarponi sul suolo”.
   Le destre nazionaliste e xenofobe troveranno ulteriore terreno fertile sia in patria che nelle altre nazioni europee, già avviate in tale pericolosa direzione. Le politiche verso i migranti provenienti da paesi islamici saranno fortemente riviste e forse bloccate completamente per mesi.
   Molte comunità islamiche, non soltanto in Francia, saranno oggetto di forti restrizioni delle libertà personali e subiranno una pressione sociale senza precedenti che potrebbe innescare focolai di rivolte locali e alimentare tra i più giovani il desiderio di arruolarsi nell’ISIS, sia raggiungendone i campi di addestramento in medio oriente, che dando vita ad autonome cellule locali, assolutamente mimetizzate e pronte a nuovi attentati.
   Ciò che, se possibile, preoccupa ulteriormente è che il segnale dato ieri sera possa rappresentare il passaggio dal tempo di iniziative di alcuni terroristi isolati a un vero e proprio invito a tutte le cellule fondamentaliste dormienti in Francia e negli altri paesi europei ad iniziare la jiad nell’odiata terra dei “cristiani” come l’ISIS chiama l’Europa e il cui principale centro spirituale si appresta tra pochi giorni a celebrare il Giubileo di quella Misericordia che stanotte è stata negata a decine di uomini, donne e bambini.
   Ci attendono ore durante le quali l’animo europeo sarà drammaticamente travagliato, diviso tra la volontà di restare fedele ai valori di civiltà su cui si è fondato e la necessità di difendersi, attaccando, da una forza della storia che emerge dal passato con ferocia inaudita e pretende di portare indietro l’orologio del mondo.
   Pochi minuti fa a Parigi il faro della Ragione che brilla sulla cima della Tour Eiffel e che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo è stato spento in segno di lutto. L’unica speranza nella notte di questo tragico venerdì di sangue è di riaccenderlo presto perchè la necessità di reagire non travolga tutto ciò che ci fa europei ed occidentali, trasformandoci, come i terroristi vorrebbero, in ciò che abbiamo scelto di seppellire per sempre.
Articolo pubblicato da Sicilia Informazioni. com il 14 novembre 2015

lunedì 2 novembre 2015

Pasolini e il viaggio in Sicilia: un barocco che pare di carne




  Nella notte tra l’uno e il due novembre del 1975 Pier Paolo Pasolini veniva massacrato selvaggiamente sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia. Lascio ad altri commentatori ogni riflessione sulla vita, sull’arte e sulla morte di uno dei più gradi intellettuali italiani del ‘900 e, nel silenzio della nostalgia e del rimpianto, preferisco rievocare in queste righe il ricordo di un viaggio che egli compì nell’estate del 1959.

   Pasolini percorse la costa italiana al volante di una Fiat Millecento: “La lunga strada di sabbia” contiene il diari di quel viaggio “corsaro” nel cui contesto verrà pure rievocato il viaggio a Scicli (sulla delicata situazione degli aggrottati di Chiafura) che condivise con Guttuso, Trombadori e altri intellettuali del Pci più glorioso e mitizzato.


  Il brano che segue racconta la tappa da Messina a Pachino.
“Avevo sempre pensato e detto che la città dove preferisco vivere è Roma, seguita da Ferrara e Livorno. Ma non avevo visto ancora, e conosciuto bene, Reggio, Catania, Siracusa. Non c’è dubbio, non c’è il minimo dubbio che vorrei vivere qui: vivere e morirci, non di pace, come con Lawrence a Ravello, ma di gioia.
Pur con degli splendidi scorci e sfilate di strade di un barocco che pare di carne, delle cattedrali d’una ricchezza inaudita e quasi indigesta, queste città non sono belle: sembrano sempre appena ricostruite da un terremoto, da un maremoto, tutto è provvisorio, cadente, miserabile, incompleto. E allora non so dire in cosa consista l’incanto: dovrei viverci degli anni. Comunque è chiaro che quello che si vocifera sul Sud, qui c’è. Ed è anche molto pericoloso: come niente qui, potresti riscoprire atteggiamenti alla D’Annunzio, alla Gide. Non è mica una chiacchiera che qui profumano zagare e limoni, liquerizia e papiri. Lascio andare Taormina, che è indubbiamente una cosa d’una bellezza suprema (ma dove, come a Positano e a Maratea, io non mi sono trovato bene): posso però affermare che il viaggio da Messina a Siracusa può fare impazzire.
Lo dico così, da turista. Approfondendo, conoscendo meglio, non solo con gli occhi, con le narici, le ragioni di un così improvviso amore devono risultare ben vere e ben profonde. Ma il mio viaggio mi spinge nel Sud, sempre più a Sud: come un’ossessione deliziosa, devo andare in giù, senza lasciarmi tentare.
Lascio gli enormi lidi di Catania, è notte, giungo a Lentini. Scendo per la cena: ma lì un profumo di limoni, una luna grossa come non l’ho mai vista, della gente che non aspetta altro che parlare, mi arresta. Fino dopo mezzanotte non mi so decidere a lasciare i nuovi amici che mi sono fatto, che mi salutano come ci conoscessimo da anni, uno dicendo: “Iddu ‘u core bono l’ave!”: e solo perché ho parlato un po’ con loro, dei loro problemi, del loro futuro.

Pachino, luglio più a Sud di così, è impossibile. Passo Noto, passo Avola. Giungo a Pachino, ch’è una cittadina piena di vita, di gente stupenda: ma non mi fermo, vado ancora più a Sud, arrivo a Capo Passero: una lingua di terra gialla con un faro bianco: e una selva di fichi d’India intorno, oltre le file di muriccioli sgretolati. E non mi fermo ancora: vado più giù, a Porto Palo, ch’è un paesetto miserando, acquattato dietro quella lingua di terra, con delle file di casucce rosse, e l’acqua degli scoli che passa in canaletti perpendicolari alla strade: la gente è tutta fuori, ed è la più bella gente d’Italia, razza purissima, elegante, forte e dolce.
E non mi fermo ancora: arrivo al porticciolo di Porto Palo, dove la strada finisce contro un muretto lungo il mare: a sinistra sotto un costone giallo una decina di barche malandate, a destra una spiaggetta incoronata da dei fichi d’India che sono dei monumenti. E non mi fermo ancora. Lì davanti c’è un isolotto, tutto sabbia e fichi d’India,con una torre barocca. Chiedo a uno dei giovani che, come sempre, sono seduti sul muretto: «Mi puoi portare su quell’isola? Come si chiama?». «Isola di Porto Palo!» mi fa, sconcertato, perché forse per lui l’isola non ha nome. Scende verso la barca, e remando lentamente attraversa il piccolo braccio di mare, reso turchino e rosa dalla luce morente. Sbarchiamo sull’isolotto, sotto la torre, e, già quasi nell’ombra tenerissima, odorosissima della notte, faccio il bagno nella più povera e lontana spiaggia d’Italia.
Siracusa, luglio (…) Poi lasciamo l’Arenella, con le sue famiglie d’avvocati, e corriamo in giro: nemmeno a farlo apposta sulla nostra strada scorre l’Anapo. Figurarsi se ce lo lasciamo sfuggire. Ci incamminiamo per una stradina polverosa, lungo un campo di liquerizia che odora acutamente, ed ecco, seguito da una fila di ulivi, di carrubi, di fichi d’India, l’Anapo che sciacqua via verde, caldo, con la corrente zeppa di papiri. «I papiri, i papiri! – grida Adriana felice – Ci sono solo qui e in Egitto, te ne rendi conto?». La sente un ragazzo, che passa di lì: e, no, non esagero, ha una faccia antica, veramente, non so bene se fenicia, alessandrina, o da scriba romano-meridionale, e quelle schiene con le spalle sporgenti come si vedono dipinte solo nei vasi. Questo ragazzo, senza dir niente corre giù per la riva verdissima dell’Anapo, e strappa tre lunghe canne di papiro, con la loro frangia verde e sottile sulla cima. Le dà a Adriana, che tutta felice le afferra, se le stringe in mano. Davvero le donano”.

   Quel viaggio non fu soltanto suggestione e incantamento. La relazione tra Pasolini e la Sicilia fu insieme la tappa esistenziale e l’ ispirazione creativa che ritroviamo nelle riprese di “Comizi d’Amore” (1963), “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), “Teorema” (1968), “Porcile” (1969), “I Racconti di Canterbury” (1970); la storica messa in scena dell’ “Orestea”, al Teatro greco di Siracusa nel ’59 con Vittorio Gassman.
  Il rapporto di stima e di amicizia tra Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini risale ai primi anni cinquanta, quando l’uno e l’altro erano parimenti ignoti al grande pubblico. Il poeta friulano recensì su una rivista romana “La libertà” il primo scarno libello del maestro di Racalmuto, “Le Favole della dittatura” di cui evidenziava la scrittura essenziale, la purezza del linguaggio. Dalla recensione nacque un rapporto epistolare e anche personale che Sciascia ricordò in “Nero su nero” nel 1980.


“… da quel momento siamo stati amici. Ci scrivevamo assiduamente e ogni tanto ci incontravamo, nei dieci anni che seguirono, e specialmente nel periodo in cui lui lavorava all’antologia della poesia dialettale italiana. Poi la nostra corrispondenza si diradò, i nostri incontri divennero rari e casuali (l’ultimo nell’atrio dell’albergo Jolly, qui a Palermo: quando lui era venuto a cercare attori per Le mille e una notte). Ma io mi sentivo sempre un suo amico; e credo che anche lui nei miei riguardi. C’era però come un’ombra tra noi, ed era l’ombra di un malinteso.
Credo che mi ritenesse alquanto – come dire? – razzista nei riguardi dell’omosessualità. E forse era vero, e forse è vero: ma non al punto da non stare dalla parte di Gide contro Claudel, dalla parte di Pier Paolo Pasolini contro gli ipocriti i corrotti e i cretini che gliene facevano accusa. E il fatto di non essere mai riuscito a dirglielo mi è ora di pena, di rimorso. Io ero — e lo dico senza vantarmene, dolorosamente – la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, detto le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua.
E voglio ancora dire una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte – quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali che siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori — io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del «Mondo», una lettera a Italo Calvino.”

  Quanto manca oggi Pasolini all’Italia? Quali editoriali avremmo letto sui principali quotidiani ad opera di chi aveva scritto “ Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.”
  Quanti ne abbiamo amato la poetica e l’impegno civile possiamo solo distinguere la sagoma irrequieta che dinanzi ai tanti drammi del nostro Paese dall’innocenza ormai perduta sembra fremere, senza pace, senza riposo. A noi, timidi accattoni di residue speranze, resta il compito in cui ci fu maestro: rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono – e si amano – le lucciole.

Pubblicato da Sicilia Informazioni.com il 2 novembre 2015

domenica 18 ottobre 2015

Sicilia ultima in ogni settore, il cambiamento verrà da fuori?




Nella fase finale dell’interminabile tramonto dell’era Crocetta cominciano ad agitarsi le acque della politica siciliana dalle quali dovrà prima o poi emergere un nuovo stile di governance in grado di colmare l’enorme divario che ormai caratterizza l’Isola rispetto al resto del Paese.
Non vi è infatti rapporto o classifica che vedano la Sicilia in posizioni diverse dalle ultime in ogni settore economico, in ogni ambito sociale, in ogni aspetto della qualità della vita.

A poco vale l’ossessivo ritornello della ripresa turistica che, come molti sanno, non è stata l’esito di politiche di attrazione né frutto di investimenti specifici quanto piuttosto,  in larga misura, la conseguenza dell’inevitabile flessione delle presenze straniere in Tunisia e in altre aree del Mediterraneo caratterizzate da forte instabilità e dal rischio di attentati terroristici.

La Sicilia dunque è ultima, oltre che nei numeri che contano,  anche nell’immaginario collettivo atteso l’immutato livello di povertà, di disoccupazione, di emigrazione giovanile, intellettuale e non e su di essa pesa ancora l’ombra di collusioni o di contiguità tra la politica e la criminalità organizzata nelle sue innumerevoli mutazioni. 

Esattamente come venti o trenta anni fa, seppur con tonalità e sfumature diverse, la Sicilia fa notizia – e, sovente, spettacolo -  per il degrado del territorio, l’insipienza della classe politica, la labirintica amministrazione,  la subalternità dell’imprenditoria, l’impoverimento del ceto intellettuale, l’assenza di grandi iniziative che oltrepassino la specifica durata e consentano di apprezzarne risultati duraturi nel tempo.

Una regione di cinque milioni di abitanti non può reggersi sulla bellezza superstite dell’ambiente né sulla retorica del patrimonio storico e artistico specie se entrambi sono ampiamente condizionati dalla mancanza di risorse per curarne la salvaguardia, la manutenzione e uno sviluppo moderno che oltrepassi abusate categorie di intervento e un innegabile obsoleto approccio conservativo.

La Sicilia che ancora una volta, nonostante la posizione geopolitica e la tradizione di terra d’incontro, non è riuscita a trovare la propria strada per entrare nella modernità, sembra consolarsi con i ritagli di un passato spesso sopravvalutato e in qualche caso storicamente distorto.

Ecco allora il patetico trionfo del cibo di strada, dei fasti del passato, dei richiami ad una Sicilia Felicissima che non è mai esistita in quanto invece  terra povera, eternamente subalterna, più furba che intelligente, ossessionata dal potere e da un cupo sentimento di dissolvimento mascherato da una finzione di “prorompente” vitalità.



Può essere utile ricordare come Gesualdo Bufalino, attento conoscitore dell’animo siciliano e schivo intellettuale di provincia tardivamente riconosciuto a livello internazionale (Campiello 1981 e  Premio Strega nel 1988) descrivesse l’animo dei propri conterranei nell’ Identikit del Siciliano Eccellente:

“Il Siciliano… tende a surrogare il fare col dire; gode del pessimismo della volontà; ama il razionalismo sofistico; vive il sofisma come passione; è animato da spirito di complicità contro il potere, lo Stato, l’autorità, - intesi come "stranieri"; vive orgoglio e pudore in un inestricabile nodo; ha una sensibilità patologica al giudizio del prossimo; ha un forte sentimento dell’onore offeso (ma spesso solo quando il disonore sia lampante e non prima); percepisce la malattia come colpa e vergogna; ha un forte sentimento del teatro e dello, spirito mistificatorio; predilige la comunicazione avara e cifrata (fino all’omertà) o in alternativa l’estremismo orale e l’iperbole dei gesti; è accecato da un sentimento impazzito delle proprie ragioni, della giustizia offesa; esibisce vanagloria virile e alterna festa e tristezza negli usi del sesso; ha soggezione del clan familiare, specialmente della madre padrona; esprime un sentimento proprietario della terra e della casa come artificiale prolungamento di sé e sussidiaria immortalità; è attanagliato da un sentimento pungente della vita e della morte, del sole e della tenebra che vi si annoda”. ( Cere perse, Sellerio, Palermo, 1985)

 Bufalino avrebbe rivisto oggi le proprie opinioni sui siciliani? L’automobile che lo falciò in un incrocio alla periferia di Vittoria nel 1996 ha impedito di saperlo.

Tuttavia, chi scrive lo ritiene improbabile tenuto conto che molte delle caratteristiche descritte sono ancora oggi rintracciabili persino nei giovani siciliani che non hanno ancora lasciato la terra in cui sono nati. 



Per le decine di migliaia che se ne sono andati altrove, c’è da augurarsi che la profezia che Giuseppe Tomasi di Lampedusa pone sulle labbra del Principe di Salina sia ancora valida.

“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.”

Evocati due tra gli inascoltati cantori della sicilianità, spesso fraintesi e interpolati, non vi è dubbio che sul versante della politica le caratteristiche descritte da Bufalino siano ampiamente rinvenibili, visibilmente incarnate e vadano tenute presenti nella fase in cui si anima il dibattito sul prossimo Presidente della Regione.

Sembrano delinearsi al riguardo alcune principali “scuole di pensiero”: da un lato c’è chi cerca il consueto Uomo delle Provvidenza, un candidato cioè che incarni le doti del superuomo, che sia conosciuto e riconosciuto anche fuori dall’Isola, che sappia incantare le folle descrivendo leopardiane “magnifiche sorti e progressive”. Non sembra di vederne alcuno all’orizzonte se non rivolgendo all’indietro di almeno venti anni un immaginario cannocchiale che cerchi le occasioni perdute. In ogni caso, del limite e dei rischi di una tale ipotesi siamo oggi ben consapevoli.

Dall’altro lato soffia il vento della cosiddetta antipolitica. Si dimentica però che, come qualcuno ha notato,  la vera antipolitica si astiene e non va alle urne come ampiamente dimostrato da decine di consultazioni locali e nazionali di anni recenti. Ciò che resta è un movimentismo che, pur essendo liquidato troppo spesso con tanti luoghi comuni, sembra conservare un richiamo ad una mitica democrazia diretta ed ha dalla propria parte una componente generazionale di indubbio interesse se paragonata all’età media delle classi politiche che si sono finora manifestate negli schieramenti tradizionali. 

Pur con molta cautela, il sociologo della politica potrebbe rintracciarvi il seme di una classe dirigente allo stato nascente che potrebbe nel tempo aspirare a costituirsi come tale ed a presentarsi agli elettori con quella concretezza e credibilità cui ancora aspira.

Non desiderando annoiare il lettore, c’è infine la scuola di pensiero che vede nell’utilità di un quadro regionale organico a quello nazionale una garanzia per la Sicilia di beneficiare di maggiore attenzione e di essere destinataria di investimenti e scelte strategiche conseguenti

Ma qui fa difetto la memoria remota poiché qualcosa dovrebbe essere stata imparata dai casi in cui ciò si verificò e anche la memoria più recente, tenuto conto della posizione di siciliani ai massimi vertici dello Stato e l’algida distanza da molti di essi tenuta nei confronti della propria regione, ad eccezione, beninteso, dell’immancabile presenza nell’ affollato palcoscenico su cui si recitano abusati copioni che trattano di mafia, antimafie et similia.

Non appare ancora avere dignità adeguata la consapevolezza di quanto il vero handicap della Sicilia stia nell’assenza di una classe dirigente che, anche se formatasi all’ombra di un leader, ne abbia raccolto gli insegnamenti e non solo gestito i voti e si sia costituita come superamento di se stessa e del leader medesimo, rinnovandosi, favorendo la crescita di giovani di qualità, spianando loro la strada piuttosto che decidendo di farne eterni quanto improbabili delfini condannati ad invecchiare in seconda o terza fila con un destino simile a quello di Carlo d’Inghilterra.

Se vi fosse in Sicilia una sorta di Banca d’Italia, si potrebbe fare ricorso al vivaio di dirigenti  formatisi sotto la guida di maestri come Carlo Azeglio Ciampi, se in anni recenti si fosse investito in scuole di alta formazione una ricerca fruttuosa potrebbe essere esperita tra gli allievi più brillanti di Gabriele Morello o di Salvatore Teresi.
  
Purtroppo l’assenza del tempo futuro nella lingua corrente ha fatto si che esso venisse sottratto ai siciliani di ieri e oggi. Ed è di ciò che la Sicilia paga oggi il prezzo più alto, non avendo voluto guardare oltre il contingente interesse di quanti l’anno governata con provincialismo e brama di immortalità politica, frustrando e rendendo vani i tentativi coraggiosi di chi è rimasto per impegnarsi pur consapevole di mettere a rischio il proprio destino personale.

Alla vigilia di quella che potrebbe essere definita come l’ultima possibilità per evitare gli errori del passato,  appaiono profetiche le parole che Leonardo Sciascia scriveva già  nel  1964 ad Italo Calvino:



"Della Sicilia si sa ormai tutto, assolutamente tutto. Però questa compiutezza e chiarezza non vengono anche dal fatto che la Sicilia è, nella sua realtà, deserto? (...) Ormai c' è più Sicilia a Parigi che a Racalmuto, nella Torino razzista che nella Palermo mafiosa. Bisogna avere il coraggio di seguire questa Sicilia che sale verso il Nord, per trovare ragione più valida (almeno per oggi) di scrivere" .

Oggi una Sicilia migliore sta crescendo altrove e inevitabilmente si sta contaminando con il futuro che avanza nel mondo piuttosto che crogiolarsi nell’alibi di una nostalgia delle contaminazioni del passato da cui discende.

Chissà allora che non ci sia un’ obbligatoria via da percorrere, quella della diaspora dell' emigrazione (non solo intellettuale) per comprendere la sostanza dei fenomeni siciliani, ma anche per raccontare il ruolo che la Sicilia ha giocato, nel bene molto più che nel male, nell' intera vicenda di crescita del nostro Paese. Sicilia internazionale, ricca di risorse, capace di produrre cultura e ricchezze, ma anche di rimanerne senza

E che sul filo che lega "i siciliani di scoglio", quelli che rimangono aggrappati alle rocce dell' isola, chiusi nei suoi confini e "i siciliani d' alto mare", che rompono l’incantesimo dell' insularità e giocano su terreni molto più ampi si sia capaci di abbandonare la logora zattera di un’autoreferenzialità impossibile e di tessere una nuova vela su cui soffi quel vento del cambiamento al quale finora, per suprema arroganza, abbiamo negato la prua.


Pubblicato su Sicilia Informazioni. com l' 11 ottobre 2015







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sabato 26 settembre 2015

La Sicilia al tempo di Renzi: cronaca di una mutazione irreversibile

   
                       
   Da oltre un anno il dibattito politico del Paese ha raggiunto una nuova ed elevata conflittualità dai contenuti e dagli attori molto diversi rispetto al passato recente. La contrapposizione nei confronti di Silvio Berlusconi - in larga misura fondata più sul giudizio etico del profilo privato/imprenditoriale del personaggio che sulle scelte politiche ed economiche dell’uomo politico- ha contraddistinto gli anni dal 1994 al 2011, dividendo l’Italia in due campi molto definiti ed identificabili
    Berlusconi aveva sdoganato la Destra, dirozzato la Lega Nord, recuperato larga parte dei socialisti a rischio di estinzione e offerto corpose possibilità di sopravvivenza ai cattolici conservatori dando vita ad un’area “moderata” consistente ma al tempo stesso resa fragile dalle continue disavventure del Premier e dalle aspirazioni suicida di qualche inadeguato delfino.
   Sul versante opposto il centrosinistra, fiaccato dalle brevi ed incompiute stagioni prodiane, trovava unità solo nel contrasto all’ Uomo di Arcore ma restava profondamente diviso al proprio interno sia per il frazionismo cronico della componente ex o meno comunista che dalla difficoltà di conciliare la tradizione marxista con quella cattolico democratica ed ambientalista.
    Berlusconi era, comunque, un “muro” al di qua e al di là del quale gli italiani identificavano se stessi e il proprio sentimento di appartenenza.
   L’autunno del 2011, preceduto dalla bollente estate finanziaria, dall’irrompere dello spettro dello spread e dall’esito dei processi, ha visto crollare fragorosamente quel muro e rimescolare tutte le conseguenti macerie in un insieme indistinto. Con il governo Monti, in nome dell’emergenza nazionale, è stata “sospesa” ogni differenza e tutti i principali partiti hanno sostenuto provvedimenti che, ciascuno per la propria parte, avrebbe in altre circostante aborrito. 
  Ma ciò ha lasciato una traccia profonda che ha condotto oltre la gestione dell’emergenza ed ha modificato il DNA delle parti in campo.
  Tra le macerie indistinte ancora sul terreno è sorta la speranza da parte del Partito Democratico di potere finalmente aspirare al governo del Paese presentandosi a viso aperto recuperando la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria, confidando non solo nell’assenza/impedimento dell’ ex Cavaliere ma soprattutto snobbando il peso del nascente Movimento 5 Stelle e ritenendo che al momento di scegliere gli italiani avrebbero comunque preferito in larga parte la “solidità” del PD del pragmatico Bersani alle evanescenti manifestazione di Beppe Grillo.
Tale clamorosa sottovalutazione è stata all’origine di quanto ora appare sotto gli occhi di tutti. Il tripolarismo (o quadripolarismo se si tiene conto delle astensioni) che ne è derivato nel febbraio del 2014 ha avuto l’effetto di archiviare l’alternanza tra due blocchi antitetici che si disputassero di volta in volta il ruolo di governo.
 E in tale contesto che l’ascesa rapidissima di Matteo Renzi va ricostruita e compresa.
  Per prevalere sull’ “orda grillina” che aveva umiliato Bersani imponendogli uno stallo permanente nella costituzione del nuovo governo il PD doveva presentarsi al Paese con un volto che sul piano generazionale rivaleggiasse con quello del Movimento 5 Stelle e sul piano della gestione del potere risultasse più affidabile perché garantito dalla Presidenza della Repubblica di allora e, conseguentemente, gradito dai grandi players dell’Unione Europea.
   Dopo la breve ed anonima parentesi di Enrico Letta, Matteo Renzi ha colto l’ opportunità e, forte del successo alla guida del proprio partito, (impensabile sino a pochi mesi prima) ha liquidato un ‘intera classe dirigente ed ha inaugurato, facendone “ tagliare il nastro” ad un nuovo Presidente della Repubblica in carica sino al 2022, una nuova era della politica italiana cui, con onestà intellettuale, va riconosciuto un rilievo simile a quello rappresentato dal compromesso storico degli anni 70 e dall’esperienza ulivista degli anni ’90. 
  A quarant’anni di distanza dalla bizzarra definizione di Aldo Moro che le pensava parallele, con buona pace della geometria le convergenze sono tornate ad essere tali.
                       
   L’era renziana, che a motivo della giovane età del premier è destinata a durare – al di là di ogni specifico incarico dello stesso Matteo Renzi – per molti anni, presenta alcune caratteristiche inedite che può essere utile approfondire seppur sinteticamente.
  Attraverso il laboratorio delle riforme costituzionali (luogo da sempre di contaminazioni altrove impossibili) viene archiviata la stagione delle contrapposizioni ideologiche che erano sopravvissute al crollo del comunismo, mantenendo il proprio effetto perverso sull’esito di riforme vitali riguardanti il lavoro, la scuola, la pubblica amministrazione, la giustizia, il fisco e molto altro che insieme hanno totalizzato i venti anni di ritardo del processo di modernizzazione dell’ Italia rispetto ai principali paesi europei e il conseguente minore sviluppo.
   L’urgenza di dare risposte troppo a lungo negate ha consentito al PD di sintonizzarsi con settori di popolazione “invisibili” per troppo tempo al Sindacato, come nel caso dei precari e soprattutto delle partite IVA lasciate come libero pascolo al PDL e alla Lega Nord ed ha posto fine all’indebita intromissione delle OO.SS che per troppo tempo sono andate oltre la propria missione istituzionale prevista dalla Costituzione. Il nuovo statuto della rappresentanza dei lavoratori ridisegnerà presto anche tale delicato settore sulle cui tardive barricate sono ancora attestati Landini e la Camusso.
   Nonostante l’infelice definizione di partito della nazione, fortunatamente presto archiviata, l’idea di un contenitore ampio e variegato tenuto insieme dal collante del cambiamento del Paese in una direzione che si sarebbe detta un tempo “socialdemocratica”, sta tenendo insieme istanze che prima marcavano i confini di partito.
  In tale nuovo contenitore trovano spazio temi sino a ieri identificativi dell’essere a destra o a sinistra: la definizione dei diritti civili, dell’accoglienza dei migranti e delle unioni omosessuali ma anche le liberalizzazioni dei servizi pubblici e la modernizzazione della P.A. Hanno pari dignità programmatica la lotta all’evasione fiscale e il dialogo “concreto”con le associazioni imprenditoriali, l’abolizione della tassa sulla prima casa e la revisione di un catasto “ottocentesco” che obiettivamente falsa la consistenza del patrimonio immobiliare italiano e crea vistose sperequazioni..
  E, ancora, convivono la responsabilità civile dei magistrati con l’inasprimento e la certezza della pena, la prospettata abolizione dell’ergastolo con la depenalizzazione di reati minori, la centralità dello Stato con l’Autonomia, riveduta e corretta, dei territori mediante il superamento della polverosa Conferenza Stato Regioni e l’introduzione di un Senato specialistico che rappresenti le diversità locali, superando il falso problema delle modalità di individuazione dei componenti.
  In sintesi, nel nuovo Partito Democratico lo sforzo di dare soluzione ai problemi posti dalla complessità prende il posto della collocazione ideologica dei problemi medesimi intorno ai quali un tempo nascevano partiti, movimenti e oggi si agitano agguerrite quanto isolate minoranze interne.
  Quando un soggetto politico a vocazione maggioritaria presenta un vasto programma unitario e traversale di interventi è inevitabile che attragga anche coloro che militavano in formazioni in altri tempi molto lontane, se non addirittura opposte, sul piano dei contenuti e dei metodi.
  Quanto oggi sconcerta – massimamente in Sicilia – in merito all’avvicinamento di esponenti storicamente lontani dall’area del centro-sinistra tradizionale, va dunque riferito alla presentabilità e alla credibilità dei singoli e non, come si ama enfatizzare strumentalmente, alla provenienza politica degli stessi
   Non giova tuttavia l’apertura verso intere aree organizzate che va limitata all’appoggio esterno o ad alleanze momentanee ma non può e non deve coincidere con l’ingresso collettivo nel partito di ulteriori componenti organizzate guidate da piccoli o grandi ras locali.
  Peraltro, fu proprio questa la cifra di tanti movimenti che nel buio dei primi anni ’90 prepararono la strada all’idea stessa di Partito Democratico, come sintesi di identità diverse ( e non di pezzi di partito) per un progetto politico comune. Come in tutte le fasi di passaggio, occorrerà separare il grano dal loglio, andare oltre i voti portati in dote e confrontarsi/scontrarsi con quanti stiano considerando esclusivamente l’aspetto utilitaristico tentando di riciclarsi nella nuova era. Prima, durante e dopo il fascismo larga parte dei problemi italiani derivò proprio dalla mancata selezione di classi dirigenti che fossero autenticamente nuove. 
   La vera sfida che il PD dovrà affrontare consisterà dunque nel corretto equilibrio tra l’accoglienza di chiunque sia interessato a costruire in Italia il Bene Comune nello scenario mondiale, oltre ogni residua frontiera ideologica e la rigorosa individuazione di una generazione, comunque nuova, di rappresentanti e di governanti che consenta al Paese quel ricambio fisiologico di volti e di storie che in quasi tutti gli stati europei è da anni un traguardo ormai raggiunto. 
   E se ciò è necessario in ogni parte d’Italia, diventa imprescindibile in una regione come la Sicilia, esposta più di altre al rischio dell’antipolitica, che dovrà presto confrontarsi con una nuova narrazione dell’Autonomia e con la selezione democratica dei profili di quanti la dovranno rappresentare e difendere non più come una rivendicazione astiosa di privilegi ormai antistorici, quanto, piuttosto, come contributo originalissimo della storia e della cultura di un popolo/nazione (per il quale non sarebbe insensata una designazione al Premio Nobel per la Pace) senza il quale l’intero Paese sarebbe impoverito e mutilato nel compito di essere ponte con il nuovo mondo che vive il calvario Mediterraneo e bussa alle porte dell’ Europa, consapevole del proprio diritto ad un futuro migliore.

lunedì 7 settembre 2015

Profughi: la “svolta” dell’Europa e la lezione di Voltaire




    Avremmo diverse ragioni per dimenticare l’estate che va a concludersi. E non solo per l’intenso caldo afoso che martella la Sicilia sin dai primi giorni di luglio. O per i tanti disservizi che ancora una volta hanno costretto cittadini – e turisti – a confrontarsi con una Palermo sempre più mediorientale che europea.

    Soprattutto vorremmo dimenticare un’ estate che ha registrato il picco più alto degli sbarchi di migranti con il potente carico di dolore, di disperazione, di morte, pur sovrastato da un incontenibile desiderio di vita e dalla speranza di una vita migliore.
    
      A differenza degli emigranti meridionali di inizio secolo che esultavano scorgendo all’orizzonte la Statua della Libertà, porta d’ingresso di quell’AMERICA a lungo sognata nel buio delle miniere o arando con fatica sotto il sole un’amara terra che apparteneva ad altri, i profughi del nostro tempo hanno  temuto soprattutto il momento in cui né la sponda da cui erano partiti né quella che aspiravano a raggiungere fossero in vista oltre la murata sbrecciata del barcone. Vite sospese tra l’impossibilità di tornare indietro e l’incertezza di procedere verso un destino sconosciuto e per molti, troppi, fatale.
   
    Dovranno essere molte e affastellate le notizie che, purtroppo abitualmente, seppelliscono le immagini del genocidio che si è compiuto sotto i nostri occhi. Già è bastata una nuova  folla di disperati provenienti dalle rotte balcaniche con un carico di morti inferiore ma non meno inquietante, per spostare l’attenzione dal molo di Lampedusa alla stazione di Budapest, dal porto di Pozzallo alle piazze di Monaco e di Salisburgo. 

       E’ stata sufficiente la foto – che certamente passerà alla Storia – del cadavere del piccolo Aylan  sulla spiaggia turca di Bodrum per far dimenticare mille e mille orrori simili consumatisi ormai da anni nel Mediterraneo e di cui, con un inconfessato e ben celato  moto di fastidio, viene fatta ogni giorno fedele cronaca e scrupolosa contabilità.
    
    Mentre per anni l’Europa ha finto di non vedere, liquidando con cinismo l’intera tragedia come un problema italiano o greco, ecco, all’improvviso la svolta inaspettata della Germania circa l’apertura all’asilo di profughi siriani senza limitazioni di alcun genere e il goffo arrancare di alcuni paesi europei che sembrano scoprire solo ora l’emergenza umanitaria, dopo mesi di disinteresse e di negazionismo.

    Resipiscenza di una nazione contemporaneamente vittima e carnefice della più grande tragedia del XX secolo ? Ravvedimento di una cancelleria che solo poche settimane prima aveva messo in ginocchio l’intero popolo greco ? O, piuttosto, un freddo calcolo di opportunità, davanti all’imminente crisi economica (e sociale) cinese, per incrementare la produzione e diventare leader mondiale delle esportazioni ?

    La “tempestività” della decisione tedesca avrebbe dell’incredibile se non si collocasse nel quadro economico globale, che,  sotto gli occhi di un’opinione pubblica distratta dai riti estivi e dalle cronache umanitarie,  nel volgere di pochi giorni è mutato con conseguenze che solo nei prossimi mesi constateremo in pieno.

   Non è intenzione di chi scrive sminuire l’effetto pratico della decisione tedesca né la sincera solidarietà del popolo di quella nazione che non ha mai dimenticato l’esperienza di essere profugo o la fuga dalla guerra e dallo sterminio. Tale sentimento resta autentico e fa onore alle migliaia di cittadini che stanno offrendo concreta solidarietà a chi arriva stremato da un’ odissea collettiva di immani proporzioni.

    Resta tuttavia poco comprensibile il diverso tenore di molte dichiarazioni di appena qualche mese fa quando ancora il fenomeno era percepito in Europa come lontano ed estraneo. Un tenore non dissimile da quello di alcune frange della popolazione italiana il cui animo è stato sovente esacerbato da politiche di accoglienza inadeguate, carenti e spesso “concretamente” interessate a sfruttare un’occasione di profitto senza precedenti.

    Non vi è dubbio che in Germania (tasso di disoccupazione 4% vs il 13% dell’Italia)  o in Austria non ci sarà mai il C.A.R.A.  di Mineo e  che sulla pelle dei migranti non lucreranno soggetti vicini alla criminalità o esponenti di un’economia della sussistenza pronta a cogliere ogni opportunità. 

   Assisteremo invece ad un’imponente politica di integrazione che farà poi da modello ai Paesi europei, se portatori della stessa necessità di compiacere la Germania o di  acquisire nuove leve per la produzione industriale e nuovi contribuenti con cui sostenere il costo crescente delle politiche di welfare.
    
     E che dire del premier della semidesertica Finlandia Juha Sipila pronto a donare la propria casa delle vacanze ad una famiglia di migranti ? O del miliardario egiziano Naguib Sawiris che chiede di acquistare un’isola (si badi bene greca o italiana) per ospitarvi e far prosperare, immaginiamo a proprie spese, i profughi, creando una nuova Città del Sole ?

  Corsa al protagonismo o carità pelosa ? Folgorazioni sulla via di Damasco o attenta strumentalizzazione di un sentimento internazionale  di solidarietà esploso dopo il martellamento mediatico e l’uso appropriato delle immagini più scabrose ? Colpo fatale all’avanzata di becere  destre nazionaliste e xenofobe o geniale intercettazione del mutato sentimento generale ?

   Certo, di queste considerazioni interessa poco alle migliaia di migranti che da due sere ormai possono ricominciare a sperare in futuro più degno di questo nome. Ed è giusto che sia così poiché, alla fine,  ciò che conta sono i destini individuali di persone reali che hanno un volto, un’anima, un destino da costruire.

    Rimane però, altrettanto giustamente, il dovere di interrogarsi su dinamiche globali e su disegni meno nobili e più “concreti”che spesso ci sfuggono perchè abilmente camuffati da argomentazioni ed atteggiamenti pubblicamente condivisibili.

    L’esodo globale infatti durerà per oltre metà di questo secolo e un fenomeno di tale portata non può certo sfuggire a chi determina i destini del mondo, servendosi di ogni mezzo e soprattutto facendo leva sui  sentimenti più profondi dei singoli cittadini.
     
     E’ già accaduto e continuerà ad accadere: fu così per gli accordi tra Regno d’Italia e Stati Uniti per sostituire nelle piantagioni della Louisiana gli schiavi neri affrancati dalla Guerra Civile con i “liberi” emigranti meridionali (si legga al riguardo la documentata ricostruzione di Enrico Deaglio pubblicata da Sellerio); è stato così per la nascita del movimento pacifista degli anni ‘70 rivelatosi poi sostenuto economicamente dall’ URSS in funzione anti NATO o per l’uso di un generale sentimento antimafia sfruttato da oltre venti anni  per costruire  consenso inossidabile intorno a carriere politiche ed a posizioni professionali o imprenditoriali. 

    Per tornare ai nostri giorni, ai temi della migrazione e delle conseguenti considerazioni strategiche sul piano politico-sociale,  è probabile che i governi, nazionali o sovranazionali,  di oggi e di domani, cercheranno sempre di nascondere parzialmente, dietro la retorica e il politicamente corretto,  quella verità delle cose che solo un’informazione libera e consapevole del proprio ruolo sarà in grado  di rivelare e di difendere.


“Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmoscemologia. Dimostrava in maniera mirabile che non esiste effetto senza causa, e che, in questo che è il migliore dei mondi possibili, il castello del signor barone era il più bello dei castelli, e la signora baronessa la migliore delle baronesse possibili."E’ dimostrato" diceva, "che le cose non possono essere altrimenti:giacché tutto è fatto per un fine, tutto è necessariamente per il miglior fine. Notate che i nasi sono stati fatti per portare occhiali; infatti abbiamo gli occhiali. Le gambe sono visibilmente istituite per essere calzate, e noi abbiamo le brache. Le pietre sono state formate per essere tagliate e farne dei castelli; infatti monsignore ha un bellissimo castello: il massimo barone della provincia dev’essere il meglio alloggiato; e poiché i maiali sono fatti per essere mangiati, noi mangiamo maiale tutto l’anno. Perciò, quanti hanno asserito che tutto va bene hanno detto una sciocchezza: bisognava dire che tutto va per il meglio".
Candido ascoltava attentamente, e innocentemente credeva.”

(Voltaire, Candido, 1759)



Pubblicato su Sicilia Informazioni. com il 6 settembre 2015