C’stato
un tempo in cui i partiti europei si riconoscevano all’interno di precisi
confini ideologici sorti nell’800 e sviluppatisi lungo l’intero XX secolo, con particolare radicamento durante il periodo
della Guerra Fredda.
Gli iscritti e i militanti, in
genere coincidenti, avevano come riferimento le due principali esperienze
politiche del ‘900, l’Unione Sovietica e
gli Stati Uniti d’America e i rispettivi sottoprodotti politici quali le
socialdemocrazie dell’Europa scandinava, l’esperienza della Jugoslavia del
maresciallo Tito e, sull’altro versante, il modello liberal britannico, di
plurisecolare tradizione, l’esperienza francese.
Persino i neo fascismi considerarono
per oltre trent’anni la Spagna di Franco e il Portogallo di Salazar, nazioni
rimaste neutrali durante il conflitto, un proprio, seppur nostalgico,
riferimento e in molti casi un sicuro rifugio per i propri reduci e per i
terroristi neri.
Il
’68 radicalizzò le posizioni e
ulteriori riferimenti a sinistra furono la Cina di Mao nelle diverse fasi ed
evoluzioni, la Cuba di Castro, il Vietnam di Ho Chin Minh e del Generale Võ Nguyên Giáp,
il teorico della guerriglia scomparso nel 2013 fa alla veneranda età di 103
anni.
Rispetto a tali riferimenti, nei partiti italiani nacquero simboli e leaders, si introdussero nella lingua parlata e
scritta neologismi e stili di abbigliamento il cui uso definiva comportamenti e
costruiva identità che duravano in genere tutta la vita e influenzavano la
formazione familiare e scolastica nonché le scelte professionali delle giovani
generazioni.
Poi
venne, imprevisto seppur prevedibile, il 1989
con il proprio dirompente portato epocale e la corsa al riposizionamento in
nuovi soggetti politici rimasti poi negli anni successivi confusi e in mezzo al
guado. Fu così per il Partito Comunista con
la Svolta della Bolognina, per il Movimento Sociale con il Congresso di
Fiuggi, per la Democrazia Cristiana e per il Partito Socialista confluiti in
larga misura nella nuova aggregazione guidata da Silvio Berlusconi e da Antonio
Martino e, nel Nord Est del Paese, nel
movimento identitario guidato da Umberto Bossi che introdusse due nuove
categorie del pensiero politico, la secessione e il federalismo. Nuove parole guida che
premiarono il neo nato movimento con uno straordinario successo alle elezioni
politiche del ’92, conquistando dopo il più caotico biennio della storia repubblicana, nel
1994 la Presidenza della Camera dei Deputati con una giovanissima Irene Pivetti,
oggi dimenticata a favore della più famosa sorella, l’attrice Veronica la professoressa televisiva
più amata dagli italiani.
Nel volgere di circa due decenni l’appartenenza
ferrea a questo o a quel partito espressa in visioni del mondo spesso
inconciliabili, in convinzioni inamovibili e in di stili di vita e modalità di comunicazione
inconfondibili, si è trovata a
riconoscere l’incontrovertibile realtà
di un mondo sempre più globale, interculturale e “mescolato” in modo massiccio
nel mondo esterno e costantemente in crescita anche in Italia. Anche a
motivo delle leggi elettorali, i partiti si sono trasformati in vaste aggregazioni
o case: i Progressisti, la Casa delle Libertà, la rete degli Antagonisti, i
Federalisti di ogni genere ed origine.
Nonostante
l’alleggerimento ideologico, le appartenenze sono rimaste evidenti e i recinti,
seppur sconnessi, mantenuti. A differenza di pochi casi di trasformismo parlamentare,
sovente dovuti all’aspirazione di mantenere la poltrona anche in futuro, ancora
negli anni ‘90 nel mondo dei militanti le differenze rimasero marcate, gli
accessi ben presidiati, gli eretici subito individuati e messi ai margini.
La
cosiddetta Primavera di Palermo della fine degli anni ’80 fu il primo esempio nazionale di rottura dei recinti
ideologici, di scongelamento delle appartenenze intorno ad un’idea che vedesse identità diverse impegnate per un progetto
politico comune. Era nata la Rete, il Movimento per la Democrazia che
vedeva insieme cattolici e comunisti, liberali e ambientalisti, uomini e donne liberali
e di destra. Persone perbene sinceramente interessate, nella drammatica
situazione del Paese di quegli anni, ad
aggregarsi andando oltre gli steccati
tradizionali e riconoscendosi, soprattutto in Sicilia, nella questione morale e
nella lotta alla mafia. Le uniche discriminanti erano la limpidezza delle storie personali e l’assenza
di ogni legame con il sistema politico-mafioso del passato recente.
Nell’atto di nascita di quel Movimento
volutamente “ a termine” la definizione di Partito Democratico come “campo
aperto” rappresentò per la prima volta l’orizzonte valoriale di riferimento e la
prospettiva politica da trasformare in realtà prima possibile. Animati da
Padre Ennio Pintacuda, il gesuita sociologo che aveva “cresciuto” i Mattarella e gli
Orlando, dialogando al contempo con i mondi del PCI e dell’ambientalismo e con
giovanissimi magistrati che avrebbero onorato il Paese, gli incontri di Filaga, piccola frazione di Prizzi dal nome
evocativo derivante dal termine che in greco vuol dire “confine”, furono il primo laboratorio in cui in
Italia di delineò un percorso aperto al pensiero plurale e si affermò, con
il concorso trasversale delle principali personalità politiche di allora, la
fine del partito- recinto.
L’egemonia berlusconiana e l’incapacità
dei Progressisti di bloccarne l’avanzata con una seria legislazione sul
conflitto d’interessi, ricongelò il processo di uscita dalle appartenenze,
arrestandone il processo, incrementando il frazionismo storico della sinistra e
la litigiosità delle diverse anime inconciliabili del centro destra che non
raggiunse mai l’obiettivo di liberalizzare quel Paese che tanto aveva
affascinato gli italiani, desiderosi - sino al punto di non dare il giusto peso
agli opachi trascorsi finanziari e personali di Berlusconi
- di quella modernizzazione che in
Europa intanto si sviluppava sul piano delle riforme e delle infrastrutture per
fare fronte alla nascente globalizzazione economica e sociale.
Nell’autunno
del 2007 sotto la pioggia e in lunghe
file ai gazebo oltre 3 milioni e mezzo di persone tenemmo a battesimo il
Partito Democratico quale tappa finale del processo di
cambiamento del centrosinistra italiano e frutto maturo dell’Ulivo. Nonostante
l’esposizione affiancata dei ritratti di Pio La Torre e di Piersanti
Mattarella, di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer, di Romano Prodi e di Walter Veltroni,
appariva prevalente l’identità post comunista che nel volgere di pochi anni si
sarebbe tradotta nella Ditta di Bersaniana memoria.
Il messaggio era ancora ambiguo e non fu un caso che nelle elezioni
politiche del 2008 Berlusconi vincesse le elezioni e governasse sino all’epilogo
del 2011 sulle cui cause ancora oggi si affastellano le ipotesi più svariate e
le teorie complottistiche più ardite.
Nel
triennio appena trascorso,
nonostante il rigurgito populista che ha fatto irrompere il Movimento 5 Stelle
nel panorama politico italiano con un affermazione oltre il 20% appena due anni
fa, il
Partito Democratico, ha vissuto un’accelerazione
delle ragioni che lo avevano prima preconizzato e poi fatto nascere. La grave
situazione economico finanziaria del Paese, un tasso di disoccupazione senza
precedenti e il vicino incubo della situazione greca, hanno finalmente fatto
comprendere come la chiave per restare in Europa da co-protagonisti fosse il definitivo
avvio della stagione di quelle riforme per troppo tempo impedite dai resti di
quell’impostazione post ideologica che ancora residuava nella componente
maggioritaria del PD e che, sino al Governo Letta, ne ha ritardato l’avvio.
La
supponente superiorità morale di una sinistra
che mai avrebbe dialogato su tale piano con Berlusconi, nonostante tutto ancora incontrastato leader – e finanziatore
- del proprio partito e l’indisponibilità
del Movimento 5 Stelle a mettere a frutto il patrimonio di consensi acquisito
nel 2013, ancora una volta avrebbe ritardato quel processo che, invece, in appena dodici mesi sta trasformando l’Italia
agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
Non
è questa l’occasione per dare un giudizio delle Riforme del Governo Renzi appena
varate. Molte di esse potranno essere valutate già
alla scadenza naturale della legislatura, per altre occorrerà il giudizio della
generazione che sta crescendo..
Non si può tuttavia non rilevare che
il sogno di un Partito Democratico, sempre più Comunità politica nazionale aperta ai contributi di tutte le culture
politiche in funzione del comune obiettivo di modernizzare e di
responsabilizzare ogni parte del Paese nel rispetto delle molte storie locali
che lo definiscono, sembra realizzare quella profezia di convergenze sul Bene
Comune che cessano finalmente di essere parallele per incarnarsi e intrecciarsi
nella storia quotidiana delle persone e rigenerando
in esse quella fiducia nel futuro troppo a lungo data per impossibile.
Ci
sarà tutto il tempo negli anni che mancano alle prossime elezioni per separare
il grano dal loglio e per impedire che un così grande
progetto sia l’ascensore per chi intende riciclarsi, ricostruire verginità che
non gli appartengono o mimetizzare responsabilità umane e politiche
inconfessabili.
Nel proliferare delle tante “Leopolde”
locali che a cominciare da Sicilia 2.0, ri-animeranno
l’Italia nei prossimi mesi, va fatto crescere,
piuttosto, il desiderio di puntare più su
ciò che unisce piuttosto che su ciò che divide: l’interesse supremo del Paese di
rendere definitivo il superamento di
quella soglia del XXI secolo sulla quale la politica italiana, impacciata da
ancestrali paure verso chi è percepito come diverso, ha troppo a lungo esitato.
Articolo pubblicato su Sicilia Informazioni.com 1 marzo 2015
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