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domenica 22 maggio 2011

Della vita e della morte di Giovanni Falcone




Non è facile ricordare Giovanni Falcone dopo 19 anni dalla strage di Capaci.
Non è facile separare la pienezza della sua vita e della sua morte dalla tanta retorica che ogni anno ne soffoca la straordinaria normalità attraverso la saturazione mediatica che, puntualmente, si rinnova.

Credo che il miglior modo di ricordarlo consista invece nell’accurata analisi della sua vita e delle ragioni della sua morte.

Giovanni Falcone non avrebbe gradito essere definito eroe, questa parola non gli piaceva ed era convinto che in realtà gli eroi non esistono: esistono persone comuni che si trovano a fronteggiare eventi eccezionali, rispetto ai quali non sono disposte a distogliere lo sguardo quanto, piuttosto, ad affrontarne le conseguenze con gli strumenti del proprio mestiere. Così il soldato diventa eroe in battaglia, il giornalista scrivendo senza padroni, il magistrato cercando la verità, il pubblico funzionario operando per il bene comune, il sacerdote amando le persone che il Dio in cui crede gli ha affidato.

Dunque sottrarre  Falcone ad ogni aureola artificiale ne rende concreto ed emulabile l’esempio da parte di quanti, senza per questo essere super uomini, possono seguirne la strada.

Non fare di Falcone un eroe restituisce ai più la possibilità di trasformare la quotidianeità della propria azione professionale e civile in un atto, non eroico ma “normalmente” dovuto per il cambiamento della propria e dell’altrui realtà.

Falcone conosceva, come tutti, la morte e la sofferenza. Ne aveva fatto esperienza indiretta attraverso la propria professione e la drammatica scomparsa di colleghi e collaboratori. La conosceva  e la rispettava ma non la temeva. Guardava ripetutamente negli ultimi mesi le straordinarie sequenze del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, giocava anch'egli con la morte la partita a scacchi che aveva come posta la vita e, come il protagonista del film, si preparava a darle un’inimmaginabile sconfitta. Spesso ricordava nelle schive interviste rilasciate che è meglio morire una volta piuttosto che, come è destino del vigliacco, mille volte nella stessa vita.

Nella professione aveva visto, soprattutto negli anni di una magistratura “disattenta” e negazionista nei confronti della complessità del fenomeno mafioso, morire mille volte molti propri colleghi non alla vita ma alla dignità e alla verità. Li aveva visti sacrificare sia l’una che l’altra all’arroganza e all’ambizione e, lasciando intendere tale progressivo convincimento,  ne aveva ricavato l’accusa di protagonismo e di ricerca della notorietà a tutti i costi, volta ad emarginarlo escludendolo da quella Direzione Antimafia che tanto era stata richiesta da Pio La Torre e da Cesare Terranova.

Credo che il momento in cui tutto ciò gli apparve con  chiarezza fu proprio durante il fallito attentato alla villa dell’Addaura dove nel giugno dell'89 trascorreva alcuni giorni di riposo. In quella circostanza e  dopo la drammatica esecuzione dell’agente Agostino e della giovane moglie Ida Castellucci appena tre mesi dopo, si rese conto che molti degli avversari che combatteva si nascondevano all’interno degli apparati cui egli stesso apparteneva. Quando comprese questo, lasciò capire che le “menti raffinatissime” non potevano risiedere in rozzi capi mafia che, seppur furbi e sospettosi , erano appena in grado di leggere e di scrivere.

E quando questa piena consapevolezza lo travolse distruggendo la fiducia nel suo stesso ambiente, comprese che era necessario andare proprio nel cuore dello Stato a cercare mandanti ed ispiratori di massacri, di inconfessabili connivenze e di storiche complicità.

Falcone probabilmente non sarebbe mai  morto se fosse rimasto in Sicilia, ma l’attentato alla sua vita doveva avvenire in Sicilia e così fu. Proprio come era già avvenuto, esattamente dieci anni prima, per il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

La spietata liturgia dell’omicidio doveva essere eclatante, dimostrativa e soprattutto riconducibile alla mafia e non ad altri e, quindi,  doveva avvenire in Sicilia e non altrove, dove, paradossalmente, sarebbe stato più facile. Ad essa doveva attendere un braccio armato che nascondesse, almeno agli occhi dei più,  i veri mandanti e i veri moventi.

La mafia si prestò ad essere quel braccio, sapendo che avrebbe affrontato la successiva inevitabile repressione cui presto si sarebbe posto rimedio con patti  scritti molto prima e il cui tradimento sarebbe poi stato all’origine degli attentati a Firenze e a Roma che servirono a ricordarli e, stavolta,  a farli mantenere,  a  chi - ed  è cronaca di nostri giorni - li aveva prima contratti, poi non rispettati e oggi “negati".

La morte e la vita di Giovanni Falcone vanno dunque lette insieme e non solo per la coerenza ideale che le lega, quanto piuttosto in un drammatico rapporto di causa ed effetto pertinente un livello istituzionale molto più elevato di quello per troppi anni preso in esame. Un omicidio di Stato, riconducibile alla lotta per la sopravvivenza di parte di una classe dirigente al tramonto, pronta a far patti con ogni genere di demone per garantirsi una nuova immunità nel mutato quadro domestico ed internazionale del potere.

Questa l’eredità pesante che Giovanni Falcone lasciò  a Paolo Borsellino e il cui peso enorme i si lesse negli occhi di quest'ultimo nei pochi mesi che lo separarono dal suo grande amico e da un assetto di potere che ha continuato a mantenersi tale senza grandi reali cambiamenti, celebrando ogni 23 maggio la data del proprio oscuro e inconfessabile successo.

Ma come nel finale del film di Bergman morire per salvare gli altri non  è mai sconfitta ma trionfo della vita, nella sua ultima partita quel pomeriggio a Capaci Falcone aveva beffato la morte, lasciato il messaggio che gli sarebbe sopravvissuto e che ora sancisce la vittoria di quella verità che per tutta la vita ha servito.








martedì 26 aprile 2011

Ciò che un giorno vedrò nella mia Città



I dipendenti regionali e dell'ARS scendere in piazza, in nome della questione morale.

I giovani siciliani di ogni orientamento politico occupare pacificamente Palazzo dei Normanni e dire BASTA.

L'arrivo al porto di una nave del riscatto da cui scenderanno  migliaia di giovani costretti a vivere fuori per poter studiare e lavorare, pur di  non umiliarsi con politici o imprenditori corrotti.

Il trasferimento della sede del Governo Regionale da Palazzo d'Orleans ad un altro qualsiasi edificio, per cancellare il ricordo delle cose orribili che da decenni vi vengono compiute.

Il conferimento del palazzo all'Università degli Studi di Palermo perchè diventi una porta della Sicilia verso il mondo intero.

Il Cardinale Arcivescovo di Palermo che annuncia la chiusura al pubblico della Cappella Palatina, sino a quando coesisterà con la sede di tutto ciò che è l'unica causa del degrado morale della Sicilia.

Gli assessori regionali del Governo Lombardo chiedere scusa ai siciliani e tornare alle proprie professioni con umiltà e in silenzio, per sempre.

Il Castello Utveggio assegnato quale sede permanente all' Agenzia Internazionale contro la Criminalità Organizzata.

Un brillante laureato di cultura Rom o Tunisina diventare Direttore Generale del Comune o della Provincia.

Magistrati, un tempo chiamati a "rischio",  passeggiare in bicicletta la domenica mattina con i propri figli al Giardino Inglese.

Un professore di latino e greco, salutato con rispetto dai genitori degli allievi che ha bocciato.

Tutto questo e molto altro io vedrò, come lo vedo adesso: possibile, necessario, dovuto a tutti noi.

mercoledì 13 aprile 2011

Un giorno saremo la Florida




Perchè i siciliani non reagiscono ?

Perchè nonostante la morte di Piersanti Mattarella e di Pio La Torre, dopo la Primavera di Palermo, le stragi di Capaci e di via D'Amelio, la retorica dell'antimafia, non è cambiato nulla ?

Perchè, dopo decenni di attesa che si realizzasse, attraverso l'elezione diretta del Presidente, la pienezza dello Statuto, il primo di essi è oggi in galera e il secondo potrebbe andarci ?

Perchè, se chiedete ai giovani siciliani se accetterebbero un lavoro da un imprenditore in odore di mafia o la raccomandazione di un uomo politico, i più vi risponderanno"sì" ?

Forse, perchè  è questo ciò che i siciliani  meritano.

Nella ricerca secolare di un protettore, ieri un re, oggi un altro e poi di padrini e di nuovi padroni, i siciliani hanno dimenticato cosa sia l'indignazione, la libertà, la dignità e si sono rassegnati, nel corso delle bufere che cambiavano la Storia, a cercare sempre una buca sottoterra dove rifugiarsi e piangere impotenti contro l'avverso destino.

Fuori il mondo cambia e travolge chi non cambia con esso.

Forse un giorno la Sicilia diventerà la Florida, ma i siciliani faranno i camerieri.

Serviranno decine di migliaia di tedeschi che sono stati nazisti e comunisti e nonostante ciò hanno saputo diventare la prima potenza europea: essi verranno non più per Goethe e per Federico II, ma perchè il soggiorno sarà economico e i proprietari degli alberghi, tedeschi.

Cucineranno a cena per pensionati inglesi ed americani che staranno tutto il giorno in spiaggia e la sera in discoteca, perchè nessuno avrà il coraggio di mostrare loro i monumenti degradati della  nostra storia.

Si esibiranno per i nuovi borghesi libici o tunisini che un giorno seppero dire basta e, riconquistata la libertà ed entrati nella post modernità  comprarono poi mezza Sicilia, a prezzi stracciati.

Alla richiesta di milioni di cinesi di assaggiare una caponata, risponderanno, attoniti, che non sanno cosa sia.

Guideranno con orgoglio visite turistiche alla finta casa di Montalbano e non sapranno nulla del Barocco di Noto.

Giunta la  sera, stanchi ma soddisfatti per le mance generose, faranno anch'essi il bagno in mare e si tufferanno dalla parte emersa della Torre Pisana, diventata il più grande acquario del mondo.

Finalmente scenderà la notte e,  nell'avverarsi di un'antica profezia, tutto troverà pace "in un mucchietto di polvere livida".

giovedì 17 marzo 2011

Fieri di essere italiani, resposabili di tale identità nel mondo, pronti ad accogliere quanti vorranno diventarlo

"Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri [antenati] di assisterci, forse temevamo che
nel farlo avremmo riconosciuto che la nostra individualità, che noi tanto riveriamo, non è interamente nostra. Forse temevamo che un appello a voi [padri] possa essere presa per debolezza. Ma siamo arrivati a comprendere finalmente che non è così, noi comprendiamo ora; ci hanno fatto comprendere, e assimilare la comprensione che, ciò che siamo è ciò che eravamo.
Abbiamo bisogno della forza e della saggezza per trionfare su i nostri timori, sui nostri pregiudizi, su noi stessi. Dateci il coraggio di fare ciò che è giusto"
Tratto da Amistad di Steven Spielberg.






    Grande giornata oggi, in un tripudio di sole, cielo terso, giovani dovunque, bandiere tricolore, una grande voglia di riscatto sociale, di riappropriazione del passato e del futuro, lontani da un presente che avvilisce e spaventa. E poi, musica, musica dappertutto, cantata, suonata, mimata, da uomini e donne di ogni età. 
  
   Può un rito collettivo così potente cambiare il corso delle cose ? Può restituirci il coraggio fisico ed intellettuale di dire quei sì e quei no che la prudenza di tutti i giorni induce a tenere dentro il nostro cuore e nel profondo della nostra mente?
 
   Io credo che oggi abbia messo radici qualcosa che potrebbe crescere,  ho sentito pronunciare dal Capo dello Stato parole forti e definitive, le ho viste raggiungere anche i più indifferenti, ho percepito un sentimento nuovo che, niente affatto retorico, è invece moderno e, per alcuni aspetti, inedito.

   Come se in tanti avessero intuito che ciascuno di noi è la ragione per cui sono vissuti e hanno lottato i nostri antenati e che, a nostra volta, abbiamo il dovere di esistere, di lottare e di costruire solo in funzione di chi verrà dopo di noi.

   Oggi, per la prima volta, ho sentito i grandi spiriti del passato uscire dalle cornici dei quadri nei musei, liberarsi dalla fissità del marmo dei Pantheon e dalla solennità mortuaria delle lapidi e camminarmi accanto non più come padri ma come fratelli.

   Ciascuno di essi mi ha sussurrato parole antiche e pure sempre nuove che indicano strade individuali e collettive che essi hanno percorso, con modalità e simboli diversi, e che aspettano anche me e la società in cui vivo. Parole che suonano aspre e dolci allo stesso tempo: parole aspre perchè definiscono valori, doveri, scelte dure e difficili che giungono a contemplare anche il sacrificio della vita, parole dolci perchè conferiscono senso e significato a quella vita di cui spesso facciamo spreco e che, solo in alcuni rari momenti o in circostanze particolari, viviamo come se stesse per terminare.
  
   L'italia, la terra dei miei padri e dei miei figli, non è un Paese eccezionale. I motivi sono tanti e diversi e non è questa la sede per esaminarli. L'Italia è, però, un Paese in grado di compiere, in presenza di specifiche circostanze, gesti eccezionali che la riscattano da una quotidiana, generalizzata apatia. e ce ne accorgiamo quando in gioco vi sono grandi emozioni, serie emergenze, grandi battaglie ideali.
  
  Allora il particolarismo guicciardiniano si trasforma nell'universalità di Dante, la furbizia del renitente o la viltà del disertore sfociano nell'eroismo dei due protagonisti de "La Grande Guerra" di Germi o del gigantesco Vittorio De Sica nel " Generale della Rovere", la mediocrità di Don Abbondio viene riscattata dall'orgogliosa umiltà del Padre Cristoforo, la strategia a tavolino di Cavour abbraccia il coraggio di Garibaldi e  trasforma il sogno mazziniano, destinato inevitabilmente a restare esule come il proprio autore,  in una realtà compiuta, pur tra mille conraddizioni.
  
  Il conformismo di intere generazioni di magistrati viene riscattato dal sangue di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e dei "giudici ragazzini" e si trasforma in piena assunzione di responsabilità, anche a costo di mettere a rischio il proprio destino istituzionale  e la propria "stabilità".

  Se potessimo "isolare", come in laboratorio, tale manifestarsi di moti d'animo in azioni concrete, avremmo a disposizione uno straordinario vettore di sviluppo e di civiltà e potremmo essere utili come e più di come lo fummo in passato, all'Europa e al mondo.
  
  Avremmo il coraggio di superare lo stupore e la prudenza interessata con cui assistiamo  inermi ad un dittatore che dopo 40 anni torna a schiacciare la domanda di cambiamento che sale del suo popolo, avremmo la forza di riconoscere la potenza dei nuovi linguaggi che salgono da uomini e donne nuove, non più collocabili nelle polverose categorie di "Sinistra" o di "Destra", piuttosto che rinchiuderci negli apparati garantiti dal tempo, acquisiremmo l'energia per dichiarare che il nostro Paese appartiene tanto a noi che ci siamo nati quanto a chiunque voglia viverci onestamente, senza rinunciare alla propria identità culturale o religiosa in nome di un melting pot anonimo ed omologante.
  
  Avremmo infine il coraggio di affidare questo Paese ai giovani, in un'immensa ed estesa "ritirata operosa" in ogni settore da parte di una generazione un po' egoista e troppo anziana per avere la voglia di correre quei rischi che sono l'unico varco che porta all'evoluzione dei singoli e della specie.

  Si, proprio quei giovani che le precedenti generazioni hanno inviato in tutte le guerre, costruendo poi, solo in parte, un Paese degno del loro frequente sacrificio.

  Si, proprio quei giovani che, frustrati da un '68 incompiuto, sono appassiti nel rancore, nella violenza o, più spesso, nel cinismo e nella disillussione.
  
  Il futuro ci sarà comunque e poiche non è così scontato come si potrebbe pensare che saranno i giovani a costruirlo da veri protagonisti,  dobbiamo aiutarli già adesso a farlo, non a nostro ma a loro modo, limitandoci a sostenerli, a incoraggiarli e a liberarli dai nostri pregiudizi e dalle nostre ubbie, pronti a farci da parte se la nostra "saggezza" dovesse sconfinare nella prudenza o in quella real politik della vita che si chiama paura di cambiare.

   Ecco, consegniamo ai nostri figli bianchi, neri, gialli, cattolici, musulmani, agnostici, questa Italia, fresca dei suoi primi centocinquantanni, limpida come la giornata che abbiamo vissuto, emozionata come forse è mai  stata, coraggiosa come sovente ha temuto di essere, libera di andare "per l'alto mare aperto".

   Non ce ne pentiremo e un giorno essi potranno dire di essere la ragione per cui noi oggi abbiamo vissuto.

   Palermo, 17 marzo 2011